Un secolo di #MarioBava: Un impermeabile per l’assassino
Dal 1914 al 2014: il centenario di Mario Bava festeggiato con una serie di focus / La nascita del Giallo all’italiana con La ragazza che sapeva troppo fino aglli anni conclusivi della carriera.
Dopo essersi cimentato con successo nel gotico ed nel peplum, Mario Bava nel 1962 decide di misurarsi con un genere ancora poco considerato nel nostro paese: il thriller. Le cause della sua scarsa affermazione vanno ricercate in prima battuta nei dettami del regime fascista che per anni ha impedito la circolazione di storie a tinte fosche, anche se già in alcuni film come Ossessione di Visconti è possibile ritrovarne qualche accenno. Allo stesso tempo vi sono anche motivazioni di carattere sociale come emerge da un numero della collana Giallo che, a partire dal 1929, aveva iniziato a diffondere i racconti di Edgar Wallace e Agatha Christie.
Come racconta il regista Luigi Cozzi nello splendido volume curato da Vito Zagarrio Argento Vivo, in un numero di fine anni Cinquanta era riportato in appendice il riassunto dell’anno criminale della polizia italiana nel quale si parlava di momento difficile a causa di ben quattro omicidi. Un dato che fa ben comprendere come una pellicola che parla di morti e assassini potesse apparire agli occhi dello spettatore di quel periodo quasi come pure fantascienza.
Con la Ragazza che sapeva troppo Bava inizia a codificare quelli che saranno gli stilemi del cosiddetto “Giallo all’italiana”: una protagonista testimone oculare di un delitto, momenti ironici per stemperare la tensione e un assassino il cui movente non è altro che la pazzia. Il nostro autore è anche il primo a cogliere i lati tetri ed angoscianti dei luoghi nostrani, un’assoluta novità per quegli anni dove, con il gotico all’apice del successo, la paura non correva tra le strade metropolitane bensì si materializzava nei castelli, cripte e apparizioni di spettri. La scalinata di Piazza di Spagna così da luogo da sogno si trasforma in un’immagine da incubo grazie all’uso di una luce espressionista e inquadrature dal basso che ne evidenziano l’inquietante maestosità delle architetture. Altra zona di cui viene colta la valenza in chiave horror è il quartiere Coppedè di piazza Mincio, ripresa poi da Dario Argento in Inferno.
Nel 1963 Bava continua il suo periodo thriller con Il telefono, primo episodio de I tre volti della paura, nel quale viene utilizzato l’espediente del maniaco che si manifesta per telefono, idea riproposta più di trent’anni dopo da Wes Craven in Scream. Ma è nel ’64 che arriva il film fondamentale per delineare definitivamente lo schema del giallo di casa nostra il cui maggior esponente sarà Dario Argento: Sei donne per l’assassino. A differenza delle opere precedenti, l’intereresse del regista non si concentra tanto su una trama macchinosa e ricca di personaggi impalpabili, ma sulle scene di omicidio qui curate in maniere dettagliata e sempre diversa l’una dall’altra.
Proprio in queste sequenze appare per la prima volta la figura dell’assassino con l’impermeabile nero, guanti e maschera di seta bianca e una particolare violenza nei confronti delle vittime. Sadismo sottolineato dalla macchina da presa che indugia sui volti sofferenti e agonizzanti delle donne come nella sequenza di Mary Arden uccisa con un ferro rovente o quella ambientata nella bottega dell’antiquario in cui la tensione viene acuita da un gioco di luci ed ombre, qui sempre più violenti e innaturali, quasi a ricreare le atmosfere degli inferi attraversati da Ercole nei peplum. Altro omicidio importante dal punto di vista visivo e delle influenze è quello di Tao Li (Claude Dantes), citato qualche anno dopo da Argento in Profondo Rosso e da Rosenthal in Halloween 2.
Nonostante le novità narrative e visive apportate, il timbro stilistico di Bava non contribuì nell’immediato a creare un nuovo filone, dal momento che la fine dei ’60 vide un proliferare di autori i quali, partendo dal modello de I diabolici di Clouzot, scrivono i propri thriller (basti pensare a Il dolce corpo di Deborah di Romolo Guerrieri e ad Orgasmo di Umberto Lenzi) all’interno di ambienti dell’alta borghesia costruendo intrecci giocati su intrighi e piani assassini per meri motivi economici. Solo a partire dagli inizi dei Settanta il modello baviano inizia ad imporsi grazie al giovane Argento, il quale, in particolar modo nel suo esordio L’uccello dalle piume di cristallo, riesce a creare uno stile del tutto personale grazie all’uso della celebre soggettiva dell’assassino e all’inserimento del trauma, perlopiù infantile, come movente dell’assassino.
Con l’esplosione del regista romano e dei suoi imitatori comincia il lento declino di Bava che, in piena crisi produttiva, realizza due pellicole molto particolari: Il rosso segno della follia e 5 bambole per la luna d’Agosto. Il primo è un thriller il cui intreccio, come avvenne per La frusta e il corpo, è sospeso tra realtà e una dimensione onirica sottolineata dall’uso del grandangolo e di immagini fuori fuoco con cui vengono introdotte le apparizioni del fantasma della moglie del protagonista, Laura Betti. Nel secondo Bava estremizza la sua ricercatezza stilistica eccedendo nell’uso dello zoom e prendendosi gioco degli stilemi del genere, come dimostra lo scherzo iniziale del finto omicidio.
I precedenti articoli della serie Un secolo di #MarioBava:
La maschera del gotico /
Il peplum e la fotografia.