The Heliocentrics – A World Of Masks
A dieci anni dall’inizio della loro carriera, i The Heliocentrics continuano a sfuggire da qualsiasi tentativo di definizione di genere o, se proprio una collocazione dobbiamo cercarla, possiamo dire che di categorie musicali l’ensemble della East London sembra averne sperimentate molte. In questo caso però, per sperimentazione non intendiamo un veloce quanto intenso attraversamento di generi e mood più o meno vicini alla propria originale vocazione, ne’ il tentativo di ricercarsi e ricrearsi in nuove dimensioni e assicurare in questo modo la sopravvivenza della band alla contemporaneità. No, per sperimentale qui intendiamo una precisa identità definita nella commistione e perfetta integrazione di musica jazz, etnica, cosmica o, per allargare l’orizzonte di riferimento, musica ambient. Proprio pensando a quest’ultima, si dice che la musica ambient evochi atmosfere visive sacrificando ritmo e melodia e lasciando che l’ascolto diventi un’esperienza sinestetica quasi al confine con la trascendenza dal reale. Nel caso degli Heliocentrics ciò è tanto più vero se si considera che le linee melodiche si confondono tra i bruciatori di incenso in un ambiente etnico, i calici di vino di una serata jazz e la musica cosmica della Berlino Ovest negli anni 70.
Dove siamo quindi? Ebbene, siamo a un punto di svolta nella carriera della band britannica. La libertà espressiva, come la curiosità esplorativa, è un bicchiere bucato, così quanta più acqua vi si versa tanta più ne scorre via lasciando il recipiente vuoto e la sete inappagata. Questo i The Heliocentrics lo sanno e non a caso, dopo 10 anni e con la nuova produzione A world of masks, decidono di abbandonare (anche se non del tutto) l’esecuzione esclusivamente strumentale per introdurre nell’ensemble le corde di una voce umana che risponde al nome della slovena Barbora Patkova.
Meravigliosa, la voce della Patkova accompagna, talvolta dirige, (come nella opentrack Made of sun), clarinetti e trombe, disegnando con una danza vocale i canovacci per l’esecuzione strumentale. La immaginiamo invece ad occhi chiusi nell’esecuzione di Time, la traccia immediatamente successiva sospesa in un tentativo di contatto simbiotico con il resto dell’universo.
Più evidente la matrice jazz in Human zoo che si perde in un reef di fiati che arriva fino alla fine del pezzo, mentre la titletrack A world of masks è una perfetta sintesi della cifra stilistica del gruppo britannico. Qui l’influenza etnica prende le vesti di un donna che grida un lamento antico, un po’ come le voci gitane della musica balcanica accompagnate però da chitarra elettrica e batteria in pieno stile Krautrock: sette minuti e quarantasette di spettacolo.
Acrobazie vocali, chitarre noise, fiati, violini, percussioni: è difficile conservare un equilibrio con i The Heliocentrics, eppure loro ci riescono e la stabilità la trovano proprio nell’andare al di là di qualsiasi aspettativa, perdendo di vista la riva e pure la boa di salvataggio.
È questa d’altra parte la naturale inclinazione dell’ensemble che, in perfetta adesione alla teoria astronomica dell’eliocentrismo, tiene fermo un punto di riferimento per ruotare intorno ad esso in un movimento libero, catartico, ispirato.
Siamo in pieni anni 70 con Oh brother fino a quando il reef di chitarra non inciampa nella voce della Patkova che questa volta assume un colore nero intenso che ricorda quello di Billy Holiday davanti a un microfono degli anni 40.
Square wave e The uncertainty principle sono i brani che, in quest’ordine, chiudono l’album; sono pezzi strumentali che la band sceglie a commiato di un disco che ha inizio, invece, con la novità del cantato nella storia del gruppo. Ad ascoltarli viene in mente la scena di chiusura di un concerto, quando la band ha già salutato il pubblico ed i fonici fanno partire una musica di accompagnamento allo sfollamento di prato e spalti.
È così quindi che gli Heliocentrics si congedano dagli ascoltatori di un album che, è necessario dirlo, non sazia al primo ascolto ma chiede di essere assaporato ancora nella sua policromìa, nelle sue numerose influenze e sorprese. Tanto ce n’è per tutti i gusti musicali purchè, sia chiaro, chi si pone all’ascolto sia capace di apprezzarne la preziosa coesistenza.