Ry Cooder – The Prodigal Son
Lo scorso 11 maggio è uscito l’attesissimo The Prodigal Son, sedicesimo album solista di Ry Cooder. A distanza di sei anni, il musicista statunitense finge (ma forse neanche tanto) di vestire i panni del figliol prodigo, come il titolo del disco suggerisce.
Tuttavia la parabola evangelica viene spesso laicizzata: nel pezzo omonimo, The Prodigal Son, con un rhytm & blues accattivante e a cui siamo “abituati” dagli anni ’80 (Bop Till You Drop; The Slide Area), Cooder canta di Ralph Mooney, il chitarrista/dio che idolatra e al quale si ispira per poter dare espressione al suo io: “luci soffuse, fumo denso e musica ad alto volume sono l’unico tipo di verità che capirò mai”. Anche in Jesus and Woody, la sovrapposizione tra la religione (Jesus) e la laicità (Woody Guthrie) diventa il “pretesto” per intonare una dolcissima ballata: Guthrie, songwriter americano della prima metà degli anni ’50, viene paragonato a Dio, poiché sognatore assiso su un trono celeste pronto ad imbracciare la sua vecchia chitarra. Il primo singolo estratto dal disco, Shrinking Man, trionfo di virtuosismi con chiare influenze country (bouzouki), presenta un linguaggio irriverente (l’uomo che si rimpicciolisce); l’abilità strumentale di Cooder raggiunge risultati via via più sorprendenti con l’avanzare dell’ascolto delle 11 tracce: Gentrification, dal piglio sfrontatamente polemico, racconta della trasformazione dei quartieri di periferia in zone abitative di pregio e Cooder prende di mira i “googlemen”, colpevoli di aver determinato il cambiamento dell’assetto sociale di queste aree. L’allegria sonora, complice la presenza di fiati di indefinita provenienza, ricorda le collaborazioni dell’artista con i Buena Vista Social Club, con i quali formò il progetto omonimo nel 1996. Su questa linea si muovono anche I’ll be rested When The Roll Is Called, cover di Blind Roosevelt Graves e Everybody ought to treat a stranger right, cover di Blind Willie Johnson, caratterizzate da ampia coralità. Tuttavia nella seconda metà dell’album le sonorità si induriscono e le parole si incupiscono, come in Nobody’s Fault But Mine dove i sensi di colpa dell’uomo, prima che dell’artista, sono richiamati dalla vocalità vibrante e dagli strumenti a fiato. La chiusa lirica di questo momento di intimità è tuttavia lasciata alle parole di speranza di You Must Unload, invito alla solidarietà e alla fratellanza.
La versatilità dei generi musicali a cui Cooder riesce a approdare in poco più di 45 minuti non è mai casuale o fuori tempo. Questo disco vale “da solo” un tramonto sulla West Coast di Los Angeles, terra natia dell’artista.