“Naturae – ouverture” della Compagnia della Fortezza: luogo ai confini del carcere e dell’umano
Da quando Armando Punzo e il bambino volsero le spalle alla scena, in Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare, la Compagnia della Fortezza ha preso la via di una nuova ricerca. Per sé, ovvero per i detenuti-attori della Casa di reclusione di Volterra insieme al loro regista-artefice, e per noi pubblico. Se il teatro della Compagnia è da sempre inteso come scavo nell’umano, strumento di conoscenza di sé, il lavoro degli ultimi anni è sotteso da un’auto-interrogazione dai caratteri quasi ossessivi, certamente espliciti, immediati, sino a porsi in modo aperto la domanda su quale sia la natura umana. Naturae – ouverture è il titolo dello studio presentato dal 29 luglio al 6 agosto presso la Fortezza Medicea a Volterra, ove quel latinismo denuncia nel plurale il dispiegarsi di una riflessione anfibia. Le nature, e non la Natura: non, cioè, lo scenario immutabile delle cose quale esse si danno, bensì quelle singolari, incommensurabilmente molteplici; oppure, la convivenza, gravida di conflitti, dell’una con le altre. Impossibile, a tal proposito, non considerare quei termini nel contesto unico in cui la Compagnia opera. Il quesito sulla propria natura è rivolto in primis a chi, nella scena del carcere, non può davvero sottrarsi a una lunga introversione. Entrando nella Fortezza, due cose ci hanno colpito. La prima, lasciati i cellulari in guardiola, il pubblico si è raccolto in un cortile prima dell’ingresso. È una banalità, ma per una mezz’ora buona duecento persone si sono trovate orfane della propria finestra virtuale sul mondo. Costrette ad esperire una durata, sia pure brevissima, e a osservare lo spazio, o a relazionarsi con gli astanti senza il tic dello scroll su chat e social; c’è da chiedersi quante di quelle persone impazzirebbero, e quanto in fretta, al protrarsi di quella privazione. La seconda, una tensione verticale nello spazio, la percezione immediata di come il corpo tenda ad allungarsi verso l’alto, a cercare il cielo. Perché, oltre le mura in laterizio a vista delle alte mura scarpate, l’orizzonte c’è, ma non si vede.
Si entrava così, già segnati dal luogo, nello spazio della rappresentazione, il “campino” nel cuore della Fortezza che è il cortile per l’ora d’aria. Lì Armando Punzo ci attendeva, mano nella mano col bambino, per una celere prolusione. Chi ha seguito per anni gli spettacoli della Compagnia assicura che questa introduzione è irrituale: Punzo ha sentito il bisogno di esplicitare la continuità di un cammino che, attraverso Beatitudo, risale proprio fino all’ultimo Shakespeare affrontato nel succitato Dopo la Tempesta, che non a caso rimanda all’ultimo lavoro del Bardo stesso.
Un uomo di colore dal corpo michelangiolesco staziona ieraticamente su un cilindro di pietra, messo in rotazione con doviziosa cura da altre due figure: per un tempo indefinito entriamo in risonanza con la sua figura, accedendo ancora a quella verticalità sacrale. Bastano pochi segni e un po’ di attenzione per cogliere il palpitare di un umanesimo genuino, la percezione della maestà dell’umano in quanto tale, che però cerca la rinascita: «Ogni generazione ha una nuova sfida all’orizzonte, a noi spetta il compito di superare l’Homo Sapiens per andare incontro all’Homo Felix» queste le parole di Punzo nelle note di sala. Progetto denunciato dalle pose adamiche, cui fanno eco la mela nelle mani del regista e l’albero sotto il quale anche il pubblico cerca ristoro. La luce della Fortezza è infatti fortissima, come sempre nel primo pomeriggio, a cavallo di luglio e agosto, quando il lavoro della Compagnia va in scena. Punzo lo sa, conosce quella luce: «Fin da subito ho amato profondamente la luce del sole del primo pomeriggio sotto cui siamo obbligati ad andare in scena. Il sole brilla e riscalda le nostre visioni rendendole eterne». Così dice a Rossella Menna, nel libro-intervista, che è anche biografia dialogata, pubblicato proprio nelle settimane dello spettacolo: Un’idea più grande di me (Luca Sossella Editore), altro titolo non avaro di implicazioni emblematiche, intriso di un’ambizione tanto utopica quanto mai priva di salvifica umiltà. Quella luce estiva, radicale, dilatata dalla candida tela cerata che copre il campino, riverberata dai costumi esotici e onirici dei detenuti-attori (così Punzo li chiama, anche nel libro), è qualcosa di più che un accidente. È un movente emotivo, una commozione atmosferica che riverbera nei costumi fiabeschi, nei raggi di sole dorati dipinti sui tessuti, nella cipria densissima che imbianca volti e braccia. E che pure, nella sua astrazione, preserva il flusso immaginifico dalla deriva melò e queer cui tanto make-up e tinte sgargianti potrebbero addurre. Forse è scontato, ma dopo trent’anni nel carcere di Volterra gli spettacoli della Compagnia sono profondamente legati al loro spazio: ne appaiono la chiosa, la quintessenza. In retrospettiva, la ricerca di Punzo assume i caratteri di una rivelazione architettonica. «Spaventato al pensiero di veder scorrere via l’esistenza senza lasciare tracce del suo passaggio in questo mondo, [l’uomo] ha edificato castelli, mausolei, palazzi e cattedrali. Io credo che la mia pratica teatrale sia invece riferibile a un’architettura al servizio della Sospensione, un’architettura lieve, un’architettura dell’impossibile» (ancora dal libro).
“Naturae – ouverture” della Compagnia della Fortezza. Foto di Stefano Vaja
Il discorso dell’uomo al carcere, nel carcere, assume comprensibilmente le modalità di un discorso fatto della stessa materia della costruzione: solo includendo il confine entro il linguaggio che nasce dentro, è possibile dimenticare la reclusione, parlando al fuori. Così il detenuto-attore tende all’attore tout court, parallelamente la formula teatro-carcere perdendo ogni consistenza. C’è in Naturae – ouverture, sia pure inviluppato nello stadio germinale da dischiudere nell’anno a venire, la problematicità dell’umano in relazione ai propri confini, ovvero alla misura del proprio poter-essere in relazione a ciò che è al di fuori, appena oltre noi stessi. Viene in mente la relazione spaziale immanente che abita nel leopardiano Infinito, il ruolo della siepe “che da tante parte \ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”: un elemento fisico che, proprio nel limitare il campo visivo, consente alla visione di acquisire misura e profondità. Come le mura della Fortezza, che danno senso alla parola detta nel loro spazio. Una parola che, come sempre nell’esperienza condotta da Punzo, è cuore rivelatore, terreno operativo per iniziare a lavorare con gli attori. In questo caso il testo d’elezione, perlustrato ed etimologicamente sbranato alla ricerca dei frammenti evocativi per la scena, è Il verbo degli uccelli del poeta persiano del XII secolo Farid ad-Din Attar. «Nel Verbo degli uccelli, Cristo viene fermato al quarto cielo e non potrà ascendere al settimo, a causa del fatto che ha portato con sé uno spillo. Perfino il figlio di Dio non riesce a separarsi da tutto», ricorda Punzo nelle note di regia. Oggetto della ricerca di Naturae – ouverture è proprio la rimozione di tutto ciò che ci allontana dal centro segreto di noi stessi. Si percepisce una tensione verso la “magrezza” scenica, per usare ancora una parola emersa nel libro-biografia, che porta a segni più laconici dei lavori del passato, secondo una traiettoria intrapresa in parte già con Beatitudo. Questo “tendere a”, prende per il pubblico, nel montaggio, la forma del pellegrinare: a un primo tempo nel campino, segue una perlustrazione in gruppi nel dedalo del carcere, dove nei locali di servizio vanno in loop, parallelamente, alcune scene fortemente evocative, come un mandala di mele rosse e libri nella cappella carceraria, o una candida grande mano scolpita che emerge da collinette di sale in un cortile minore. A seguire, di nuovo nel campino: climax onirico, una solenne cerimonia alla fine della quale alcuni attori si sdraiano su drappi neri, mentre altri ne tracciano la sagoma versando sale. Ne restano figure svuotate, negativi, umanità da riempire, disegni di luce grumosa.
È infine lo stesso Punzo a interrompere il flusso con un “basta così” che ci riporta alla natura di studio dello spettacolo. Ma tanto basta per capire il senso del progetto di un Teatro Stabile nel carcere: l’utopia possibile per cui sono stati stanziati già da quattro anni i fondi necessari, ora però congelati. Come è stato ricordato nei vari incontri pubblici tenutisi nell’ambito del progetto triennale, iniziato l’anno scorso, per i trent’anni della Compagnia. L’intervento materiale nel carcere-luogo sarebbe il necessario suggello di una rivoluzione civile, foce naturale di un percorso artistico, ma anche segno che la ricerca della Compagnia non è frutto di una singolarità irriproducibile.
foto di Stefano Vaja
[Immagine di copertina: Stefano Vaja]