Arti Performative

Teatro Segreto – Il soccombente

Marcella Santomassimo

Una trovata crudelmente irritante finisce per trasfomare le buone premesse in uno spettacolo noioso

Un poeta non di poco conto dell’Ottocento scriveva: “è assurdo dividere le persone in buone o cattive, le persone o sono interessanti o sono noiose”. Oscar Wilde mi perdonerà se proverò a stravolgere questo suo arguto aforisma e ad applicarlo non a qualcosa di umano bensì all’arte, in questo caso al teatro, per dare una definizione, se di definizione è poi giusto parlare, di Il soccombente, spettacolo in questi giorni in scena al Piccolo Eliseo di Roma, che inaspettatamente e con grande rammarico, sembra rientrare nella seconda categoria. In maniera inaspettata perché in scena c’è Roberto Herlitzka, un attore di tutto rispetto e dalla bravura disarmante, e il capolavoro di Thomas Bernhard – qui nella riduzione di Ruggero Cappuccio – un testo in parte autobiografico che smuove le segrete dell’animo umano, mettendo in gioco l’ambizione, la resa, la follia, il suicidio. Sarebbe bastato questo a reggere le fondamenta di una ben solida struttura ma la regista Nadia Baldi, che ha già lavorato precedentemente con Hertlizka, sia a teatro con il Don Chisciotte (che ha riscosso così tanto successo da essere trasmesso sulle reti televisive) che al cinema, non è stata dello stesso parere.

All’io parlante, che espone al pubblico le memorie di due esistenze, la sua e quella dell’amico Wertheimer, spese in balia di un insostenibile confronto con il più grande virtuoso del pianoforte del XX secolo Glenn Gould, conosciuto durante un corso di perfezionamento pianistico a Salisburgo, la Baldi ha aggiunto un’altra figura in scena, un alter ego dell’io parlante, una donna: capelli lunghi, piedi scalzi, viso coperto dal quale si lascia intravedere uno sguardo assente e folle; una presenza ambigua: anima inquieta della sorella di Wertheimer, che il pianista, definito da Gould “il soccombente” ha reso pazza con le sue pressioni e il suo atto di suicidio, o personificazione dello stato di infelicità in cui Glenn Gould, con la sua arte inarrivabile, ha precipitato i suoi due amici. Seduta su una sedia da barbiere finisce poi per muoversi su tutta la scena disegnando, a volte graffiando, le pareti di ardesia con del gessetto bianco e ripete incessantemente una parola: pensai. Il suo “pensai” scandisce il tempo, si inserisce in ogni respiro di Herlitzka, esattamente come scritto nel testo originale dove gli incisi “pensai”, “così lui” e “diceva” ricorrono alla fine di ogni concetto, frase, pensiero, appunto. Quella che all’inizio era parsa una trovata interessante, finisce con il diventare qualcosa di crudelmente irritante. Le pareti di ardesia si trasformano poi, a intervalli di tempo, in un unico schermo sul quale proiettare foto dell’attore: ora vengono messe in evidenza le sue rughe, ora il suo contemplare il cielo, ora il suo chiudersi al mondo con un supersantos stretto tra le braccia. La scelta di questa trovata scenica risulta essere incomprensibile e fuori luogo. C’è troppo insomma in questo Soccombente. Sarebbe potuto bastare Herlitzka, la sua capacità di modulare la voce, di renderla musicale, armonica, fluida, quasi una melodica di Bach.

Le rappresentazioni teatrali non sono belle o brutte, possono essere noiose o interessanti, possono farti compagnia per giorni, fare capolino nella fantasia, negli occhi, nel cuore, possono scomparire un attimo dopo che il sipario è calato, cadere nel dimenticatoio, oppure sussurrare nell’orecchio una sola parola, pensai.


Dettagli

  • Titolo originale: Il soccombente

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