“Maternità” e “Manson” di Fanny & Alexander: teatro-agorà
Negli ultimi anni Fanny & Alexander, il gruppo teatrale ravennate fondato da Chiara Lagani e Luigi de Angelis, ha orientato la sua ricerca verso la costruzione di dispositivi drammaturgici interattivi, in cui il pubblico può cambiare il corso della narrazione, esprimendo anche dubbi e opinioni personali, per il tramite di uno strumento che in qualche misura consente di farlo, in modo analogo a quanto già avviene da tempo nel mondo dell’audiovisivo, sulla scorta di quello videoludico. Per fare un esempio extra-teatrale, qualcuno forse ricorderà l’ultimo episodio, intitolato Bandersnatch, della quinta stagione di Black Mirror – la serie Netflix ambientata in un futuro distopico – in cui lo spettatore poteva prendere delle decisioni all’interno della narrazione: ciò avveniva naturalmente entro un margine di prevedibilità, perché tali scelte potevano essere effettuate tra due sole opzioni concesse all’utente-spettatore e, oltretutto, in molti punti esse riguardavano possibilità poco o per nulla rilevanti sul piano drammaturgico, come quella di far scegliere al protagonista quali cereali mangiare a colazione.
In un certo senso, due spettacoli dei Fanny & Alexander, che si potranno vedere in scena in questi e nei prossimi giorni alla Galleria Toledo di Napoli, ci dicono che questo tipo di funzione si può esercitare anche a teatro e forse anche in maniera più stimolante rispetto a quanto accade per il medium audiovisivo. Si sostituisce, alla solitudine di un io che sta davanti a uno schermo, un noi che compie un rito collettivo, in un teatro-agorà in cui le decisioni vengono prese letteralmente insieme; e la scelta finale è l’esito di una statistica (in cui prevale quella maggioritaria) oppure, in ogni caso, si tratta di decisioni che vengono condivise con gli altri spettatori presenti in sala, come in un dibattito politico, in un’assemblea, o come avviene durante un processo a un imputato dinanzi a un tribunale.
Parliamo di Manson, recuperato lo scorso settembre al TeatroBasilica nell’ambito del festival romano Short Theatre e che va in scena questa sera, 7 dicembre, e domani alla Galleria Toledo di Napoli, grande prova d’attore di Andrea Argentieri nei panni del serial killer Charles Manson. Personalità folle e fanatica, verso la fine degli anni ’60 costituì in California una vera e propria setta di fedeli seguaci, una sorta di comunità hippy criminale, che il 9 agosto 1969 fece irruzione nella villa di Roman Polanski e compì l’efferato massacro dell’attrice e moglie del regista, Sharon Tate, ventiseienne e incinta, e di alcuni ospiti in casa. Dopo una prima parte dello spettacolo, molto suggestiva, in cui tutto viene affidato alla sfera sonora per un raffinato e immaginifico gioco di equilibri tra cinema e teatro, parte il processo a Manson, ripercorrendo domande e risposte che realmente compongono gli atti di quel processo. Le risposte sono date in lingua inglese da Argentieri, che straordinariamente recita seguendo l’espediente dell’eterodirezione, guidato in cuffia dalla voce registrata del serial killer da lui incarnato; a fare le domande, prendendo l’iniziativa di volta in volta nel pronunciarle, sono proprio gli spettatori, provvisti di matita ed elenco con le domande da fare e da spuntare di volta in volta, senza seguire un ordine particolare e lasciandosi ispirare solo dalla personale curiosità e sensibilità. Anche qui nulla è lasciato veramente al caso, a parte l’eventualità che qualche spettatore più distratto riformuli la stessa domanda già fatta da qualcun altro, ma la scelta e la condivisione delle domande (non tutte saranno formulate) non solo orienta il corso della narrazione ma fotografa anche l’interesse degli spettatori verso la conoscenza di alcuni dettagli piuttosto che altri, che riguardano lo svolgimento dei fatti.
E poi c’è Maternità, ancora un monologo della compagnia romagnola che abbiamo visto in aprile a Roma all’Angelo Mai e che sarà in scena alla Galleria Toledo di Napoli il 14 e il 15 dicembre. Chiara Lagani, qui anche interprete oltre che drammaturga, si confronta con l’omonimo racconto dell’autrice canadese Sheila Heti, e si chiede, di fronte al pubblico seduto davanti a sé, che cosa la trattiene dal mettere al mondo un figlio. Questo monologo-dialogo procede per domande proiettate alle sue spalle, simulando il testo letterario da cui è tratto, in cui l’autrice formulava delle domande su un foglio e si rispondeva in modo affermativo o negativo per mezzo di monetine come nel libro dell’I-Ching. Il pubblico presente in sala può indicare le sue risposte attraverso un telecomando, ed esprimere così un proprio personale punto di vista sulla maternità e sulla non-maternità. Lo spettacolo, sebbene sia un po’ appesantito da questo meccanismo non sempre necessario, è un esperimento interessante, in quanto rappresenta una sorta di tassonomia degli individui che frequentano quel dato spazio teatrale (all’interno di un luogo come l’Angelo Mai, ad esempio, la sensazione impressionante, da madre, è stata quella di essere percepita come parte di una minoranza) e che sono interessati al delicato e sempre attuale tema al centro del progetto.
[Immagine di copertina: “Manson”. Foto di Claudia Pajewski)