La solitudine dei numeri ultimi: storie di sofferenza tra le pieghe della marginalità
Sono vite ai margini e solitarie, vite intrise di dolore, martoriate, traumatizzate, quelle che abbiamo visto al centro di due spettacoli teatrali nelle ultime settimane. In comune, uno spazio: il Teatrosophia, che, in centro a Roma, ha da poco riaperto i battenti (e ne parlavamo qui). Il primo dei due, al Teatrosophia ha attraversato una fase di sviluppo del suo progetto, dopo aver vinto nel 2020 il bando per una residenza: Chi niente fu (non dirà niente), un testo uno e trino del giovane drammaturgo Giuseppe Pipino, formatosi alla Civica Scuola Paolo Grassi di Milano, e messo in scena dalla Compagnia Ragli il 15 marzo allo Spazio Rossellini, polo culturale multidisciplinare della Regione Lazio gestito da ATCL. Una straordinaria Dalila Cozzolino, infallibile interprete e meritevole di più spazio sulle scene italiane, diretta da Rosario Mastrota, veste i panni di tre personaggi complessissimi, di età e generi diversi. Lo spettacolo, a cui presta il titolo un verso di Fernando Pessoa («Un giorno verrà il giorno in cui ormai / Non dirò più niente. / Chi niente fu né è non dirà niente»), si compone di tre monologhi scritti in tre fasi della vita dell’autore, scollegati ma potenzialmente parte della stessa nicchia di mondo: un condominio, evocato da uno sportello di ascensore appena abbozzato e situato in alto a sinistra, in quell’area di soglia che è il boccascena, su cui le luci si soffermano tra la rappresentazione di uno spaccato di vita e l’altro. Nel primo, Carmela è una donna che abita da sola con Paoletto, l’unica creatura viva, anche se in gabbia, con cui dialoga. Carmela ha un trauma, una ferita che brucia sul cuore e che lo spettatore scopre poco a poco. È perennemente ossessionata dai suoi piedi, non li denuda mai, le danno sicurezza. Sono tutto. Tutto quello che lei, a differenza di un fratello che si ammalò, ha sempre avuto la fortuna di avere. Li copre attentamente con tre paia di calzini, li custodisce come si custodisce un segreto o un figlio. È in questo monologo che più degli altri la scrittura di Giuseppe Pipino e la regia di Mastrota si fondono, trovando nel corpo e nella voce dell’abile Cozzolino il punto di incontro fra i mondi della parola e della scena, una visione dal retrogusto beckettiano; forse Carmela non è poi così distante dalla Winnie di Giorni felici, che pure era metaforicamente senza piedi, immobilizzata e sepolta da un cumulo di sabbia alto fino alla vita.
Il secondo monologo vede protagonista Marino, anima profonda, innamorata della vita e gender fluid, ma è quest’ultima cosa che, in un paesino bigotto del Sud Italia, corrisponde purtroppo a un biglietto da visita per l’esclusione sociale, persino da parte della famiglia. Il personaggio dell’ultimo monologo è Elvezia, il più complesso fra i tre. Luci acide e monocrome bagnano una lunghissima chioma bionda, arrotolata in parte attorno alla fronte, come un copricapo, su un abito bianco (forse nuziale). Il ricordo di qualcosa che si è perduto attraversa come un flusso di coscienza il suo pallido corpo, strisciante, forse danzante in un delirio più onirico che reale, un’allucinazione. Elvezia nasce da un episodio autobiografico di Giuseppe Pipino, il ritrovamento di una foto che ritraeva la sorella della nonna, ma con un occhio cancellato, l’occhio che la donna aveva perso durante la Seconda Guerra Mondiale durante un bombardamento. Elvezia è un personaggio difficile da seguire, e forse proprio per l’intimità della sua genesi, starebbe più a suo agio sulla carta, in una pagina di diario, che sulla scena, dove lascia lo spettatore con qualche domanda, un po’ spiazzato.
Il secondo spettacolo è ancora un monologo, ma nasce altrove, a Salerno, dalla penna di Francesco Maria Siani. Andato in scena al Teatrosophia dal 18 al 20 marzo, Angelus Domini è una storia di sofferenza fisica e psicologica, dai toni strazianti. La scrittura è caotica, nelle intenzioni dell’autore, per aderire al realismo di un personaggio dalla mente affastellata. Adelina, questo il nome della protagonista, reduce da un passato difficile, ha perduto la sua identità. Per gli altri è soltanto un numero, un 492, rinchiusa in quella che per lei potrebbe essere una prigione o l’inferno, all’interno di un ospedale psichiatrico. La donna, di mezza età, è interpretata da Carla Avarista (diretta da Antonello Ronga), indossa una vestaglia da notte, affiancata soltanto da una sedia bianca che sembra mummificata, rivestita di stracci come di una camicia di forza un corpo; un arredo evocativo, a volte spostato da una parte all’altra a simboleggiare il peso di un segreto che si trascina; a volte capovolto, trasformato nel grembo di una partoriente al travaglio. A fare da manto avvolgente alla solitudine scenica di Adelina, che ha avuto la sfortuna di nascere da un padre austero, abusante e mortificante, solo un fascio di luce che attraversa il palco, e un tema musicale che nella sua modularità risuona come il verso antico di un carillon. Adelina finisce in età adulta per ritrovarsi aggrovigliata nelle stesse dinamiche di abuso, proprio quando invece crederà di aver conosciuto l’amore. Dove, però, comincia la realtà vissuta e dove l’allucinazione? La scrittura non chiarifica in modo netto quale fine abbia fatto il pargolo dato alla luce e nato al di fuori del matrimonio. Una suora, Amelia, glielo avevo tolto dalle braccia perché frutto del “peccato”; in un’altra scena si allude anche a un grave maltrattamento di questo stesso figlio, ma la situazione potrebbe anche rispecchiare una visione, forse un ricordo, o forse ancora, come suggerisce una statua della Vergine che pende dall’alto, nessuna delle due cose, perché è dal Cielo che Adelina ci parla.
[Immagine di copertina: Dalila Cozzolino in “Chi niente fu (non dirà niente)”. Foto di Manuela Giusto]