Kamasi Washington – Heaven and Earth
Kamasi Washington è un musicista che definisce la sua arte nella dicotomia. Il 22 giugno scorso è uscito il suo ultimo disco che si intitola Heaven and Earth, cielo e terra, e tra queste due dimensioni egli colloca ben sedici brani. Allo stesso modo, il rapporto tra la critica e la musica di Washington è un rapporto freudiano, fatto di innegabili apprezzamenti ma anche di sottrazioni di merito: il confronto con gli elefanti capostipiti di un genere, peraltro, non ha mai giovato particolarmente a qualcuno. Ma il jazzista di Los Angeles pare non curarsi abbastanza delle critiche e dà alla luce un altro lunghissimo album che non conosce sazietà, così come per la sua precedente creatura The epic, nata nel 2015: ben tre ore filate di musica.
Per non deludere le aspettative quindi, Washington piazza all’inizio dell’album un’operazione onda d’urto con un rush continuo di sax e tastiere e così prosegue per i due – tre brani successivi. Quella che avvolge l’intero “lato a” del disco è una cloud dal vago gusto jazz-funk, tipico di una soundtrack da poliziesco anni settanta firmata Micalizzi, con tanto di zampa d’elefante, Lancia Fulvia e occhiali a goccia. Solo Connections e tiffakonkae, rispettivamente quarta e quinta traccia del disco, arrivano a mettere una pausa con un sound più disteso, assecondato dal fraseggio armonico e dal cantato di una voce femminile in Testify che segue poco dopo. Il primo atto viene quindi chiuso dai nove minuti e cinquantuno di One of One, vera chicca dell’intero Heaven side insieme a The invincible youth, brano introdotto da un mosaico di dissonanze che definisce una riuscitissima impro jazz.
The Space Travellers Lullaby è l’altrettanto lungo brano che assicura l’aggancio dell’ascoltatore sulla terra, imbastendo un tessuto sinfonico attraverso gli effetti di un mellotron così come in Street Fighter Mas in cui un coro di voci fa da contrappunto al sax di Washington. Lo stesso coro, che sembra aver scomodato qualcuno dall’aldilà, ma che in realtà contribuisce ad evocare l’atmosfera very seventy, è presente in Song for the fallen che con i suoi dodici minuti e quarantadue sale sul podio dei brani più lunghi dell’album. Show us the way è il penultimo album della seconda sezione del disco. Ebbene, a dispetto del titolo che suona com un “libera nos a malos”, un’invocazione di aiuto con gli occhi alzati al cielo, questa traccia ha in realtà un ritmo incalzante in cui piano e sassofono si combinano in una sincronia perfetta; peccato solo per l’immancabile coro che ha qui l’effetto urticante di un antifurto a intermittenza.
In realtà da tanto si capisce il peso che il jazzista losangelino ha inteso dare al suo lavoro, condendolo di elementi fin troppo didascalici e tutto sommato di brani che avrebbero potuto essere dimezzati per dare la stessa resa. Stessi effetti quindi e stesso ritmo per un concept album che paradossalmente vorrebbe tracciare una linea di cesura tra cielo e terra, un confine tra questo e l’altro mondo, ma che in realtà non riesce a trasmettere in pieno la separazione con tutte le sue sfumature e si perde nella ridondanza di strutture ed esecuzioni che, seppur impeccabili, finiscono per stancare un po’. Buona parte della critica ha accolto con perplessità l’ultimo lavoro dell’artista pur riconoscendone le doti ed il coraggio di affrontare un genere di cui i suoi predecessori hanno scritto la storia. Certo è che Washington avrebbe potuto risparmiare qualcosa, come le reiterazioni di cui parlavamo poc’anzi ed i tempi del disco oltremodo dilatati, ma non va sicuramente trascurato il fatto che i tentativi di innovazione, fossero anche solo nuovi modi di interpretare il genere, fanno sempre un po’ fatica a farsi strada se chi ascolta si schiera nella cerchia dei puristi e dei nostalgici dell’ultim’ora, senza dare credito all’avanzata di nuovi paradigmi stilistici. Un po’ come dire che i Radiohead avrebbero avuto vita breve se gli amanti del rock fossero rimasti aggrappati solo alla chitarra di Elvis.