Intervista a Natasha Czertok del Teatro Nucleo: “Kashimashi” contro gli stereotipi di genere
Natasha Czertok, attrice, docente, drammaturga, figlia d’arte, è l’emblema di un teatro totalmente calato nella contemporaneità, un teatro giovane, politico, intriso di femminismo e che accarezza spesso il tema degli stereotipi di genere e del loro superamento.
Attraverso la realtà artistica ferrarese Teatro Nucleo Czertok sviluppa una ricerca che sensibilizza verso l’inclusione sociale e la parità di genere, frutto anche di laboratori condotti con donne di varie provenienze sociali e i cui esiti rappresentano spesso la genesi dei suoi lavori. Abbiamo incontrato quest’artista che smonta modelli cristallizzati, spoglia delle loro maschere uomini e, soprattutto, le donne, scavando nella loro natura più intima.
Parliamo con lei di Kashimashi, il suo spettacolo in scena stasera, venerdì 18 marzo, a Pordenone, all’Auditorium Concordia nell’ambito del festival “La scena delle donne”.
Natasha, la compagnia Teatro Nucleo conduce una particolare ricerca sui temi femminili e sulla rappresentazione di genere. Da dove nasce questo interesse?
Teatro Nucleo è da sempre caratterizzato da una componente femminile importante. Horacio Czertok e Cora Herrendorf fondarono la compagnia in Argentina intorno al 1965, dove lavoravano insieme a un nutrito gruppo di artisti che si chiamava Comuna Baires e che a causa della dittatura si è dovuto trasferire in Europa, scegliendo infine l’Italia dopo diverse vicissitudini. Cora e Horacio sono approdati a Ferrara per una serie di incastri particolari. Erano votati a un teatro politico, con una forte connotazione ideologica e in tutto questo, più che lanciare dei messaggi attraverso gli spettacoli, o occuparsi di un teatro “didattico” hanno sempre scelto la metafora poetica per trasporre quelli che erano i loro ideali. Oltre a essere entrambi registi e drammaturghi, e anche attori, sono anche i miei genitori. Diciamo che io sono cresciuta con questa concezione del teatro come mezzo per comunicare delle idee e per cercare nel nostro piccolo di cambiare il mondo. Piccole gocce in un mare di questioni e di problemi, che in qualche modo hanno sempre come obiettivo quello di trasformare e cambiare le cose che non ci convincono e che non ci piacciono. Da qui la ricerca che sto portando avanti. Diciamo che anche se le cose sono molto cambiate negli anni, questa base, per Teatro Nucleo, rimane.
Che cos’è il “genere” nel tuo teatro?
È qualcosa che è connaturato un po’ alla storia di Teatro Nucleo, quella di dedicarsi al genere in quanto donne e in quanto creatrici, ma anche e soprattutto in quanto persone di teatro che semplicemente fanno il loro lavoro come i loro colleghi uomini. Non è possibile però slegare questo lavoro dalla conoscenza e dalla consapevolezza di essere un genere che nei millenni è stato oppresso e che ancora non ha raggiunto l’uguaglianza. Noi registe e donne di teatro nel nostro contesto siamo assolutamente uguali ai nostri colleghi maschi: mia madre ha curato la regia di molti spettacoli del Teatro Nucleo, e ha iniziato molto presto a occuparsi di tematiche legate al femminile; non solo perché era una donna, ma anche per approfondire il discorso della creazione come elemento femminile dell’essere umano non solo donna. Da quando erano ancora in Argentina si è occupata di donne e migranti, di donne con problemi psichiatrici, con problemi di tossicodipendenza, ecc. E questo impegno ha accompagnato l’agire di Teatro Nucleo sul territorio anche in Italia. Da una decina di anni a questa parte, anche con lavori di teatro comunitario, ha fondato un gruppo di attrici non-attrici, donne comunitarie con cui ha montato spettacoli, creato progetti di sensibilizzazione su diverse tematiche legate al femminile nel territorio di Ferrara e ha anche scritto spettacoli che approfondiscono questi temi: non possiamo quindi non pensare a questo forte elemento che riguarda i diritti delle donne e di tutti gli esseri umani a prescindere dal loro orientamento sessuale e dalla loro identità di genere.
Kashimashi è una parola giapponese che significa “rumoroso”, “caotico” ed è anche il titolo del tuo spettacolo. Gli stereotipi dovrebbero essere modelli fissi, cristallizzati. Cos’è che per te, invece, li rende “caos”?
Il “caos” a cui fa riferimento il titolo è in realtà legato a questa parola, che è una parola-stereotipo. Kashimashi significa “confusione”, “caos”, ma al tempo stesso l’ideogramma che rappresenta questa confusione è il disegno di tre donne che parlano tra di loro con un tetto sopra la testa. Starebbe a significare che tre donne messe insieme creerebbero il caos. Questa allusione presente nella lingua giapponese mi è sembrata molto strana, assurda e, nella sua assoluta mancanza di rispetto verso il genere femminile, anche molto divertente. Per la mia ricerca in questo spettacolo mi è sembrato interessante utilizzare un termine così denigratorio ma allo stesso tempo simpatico, intriso di un certo sarcasmo e ironia. Detto questo, credo anche che il caos sia un elemento molto presente nella vita delle donne (almeno nella mia, sicuramente!). Questo continuo cercare di far quadrare la propria vita privata con la vita lavorativa, ma anche il pensiero che ci caratterizza, a differenza del modello maschile, che va su tanti binari paralleli… questo spesso è incomprensibile per i nostri colleghi. Noto a volte una difficoltà a comprendere la maniera in cui pensiamo oppure cerchiamo di affrontare le cose. Tuttavia, il motivo per cui utilizzo proprio questa parola nel titolo è più che altro legato a un discorso “semantico”.
Come evolvono i tuoi stereotipi, i personaggi femminili del tuo spettacolo?
Gli stereotipi che ho individuato come modelli, personaggi che affronto nello spettacolo, è come se fossero tante solitudini, tanti lati di una stessa donna. È un po’ come se dentro una stessa donna, uno stesso personaggio, vivessero tutti questi elementi. Ed è anche questa una caratteristica che ho scoperto un po’ lavorando, facendo questa lunga ricerca. Ho lavorato in particolare su quelle che io individuo come caratteristiche e stereotipi, elementi fissi ai quali facciamo riferimento e nei quali ci specchiamo. Per esempio all’inizio c’è una donna nell’atto di farsi un selfie, che si specchia nel tablet, con quel tipico sorriso inquietante: non credo che tutte le donne siano così, evidentemente, ma credo che ci sia un momento nella vita di ciascuna donna in cui si attraversa quella fase. O comunque è un modello al quale non si può non fare riferimento, essendo il nostro riferimento principale la donna “perfetta”, la donna sorridente, la donna che anche se è sola sta bene ed è felice e non ha bisogno di nulla. Più che personaggi con una loro profondità e una loro psicologia, è come se ci fossero delle maschere, delle presenze che sono venute fuori proprio perché questo siamo o a questo ci riferiamo. Una cosa che anche caratterizza questa ricerca è che essendo iniziata durante il primo lockdown. Eravamo tutti un po’ lontani, e allora ho inviato una richiesta di partecipazione via mail a molte persone che conoscevo (miei allievi e allieve, amici, persone anche molto diverse fra loro, per caratteristiche, lavori, eccetera, chiedendo di rispondere alla domanda: «in quale stereotipo ti riconosci?». Nel mio lavoro sono solita, mentre faccio ricerca per creare i miei spettacoli, fare dei laboratori che servano ad arricchire il materiale che trovo, per testarlo ed elaborare insieme ad altre persone idee e materiali drammaturgici. In quel momento non era possibile farlo, l’ho fatto a distanza e ho iniziato a intrecciare quella che era la mia ricerca e il lavoro che già stavo facendo con tutte queste immagini e questi interventi che sono arrivati dall’esterno e che con tanta generosità questo gruppo di venticinque persone ha contribuito a creare: un panorama esteso di visioni riguardo gli stereotipi. Gli audio che mi sono stati inviati, le musiche dei vari contributi, sono stati poi inseriti all’interno della traccia sonora dello spettacolo elaborata da Vincenzo Scorza. È stato molto importante per me per avere una visione anche un po’ più estesa, e non solo personale, del mio lavoro.
In questo tuo lavoro parli di “bestiario privato”. A cosa ti riferisci?
Il primo studio che ho presentato – quindi non lo spettacolo definitivo che ha poi debuttato l’anno scorso – si chiamava “Private Bestiary”, ovvero “bestiario privato”. Ho avuto la fortuna di poterlo presentare in diverse situazioni subito dopo il primo lockdown, che sono state preziosissime per avere feedback dal pubblico e per continuare quella ricerca. Infatti continua ancora adesso, nel senso che io spesso unisco al mio spettacolo un laboratorio che si chiama “Stereotipi e corpi”, durante il quale continuo ad approfondire questa ricerca sugli stereotipi anche attraverso improvvisazioni, esercizi diversi, insieme agli allievi dei laboratori. Il primo titolo deriva dal fatto che erano veramente degli strani esseri quelli che venivano fuori dalla ricerca. Anche lì, un po’ ironicamente, le vedevo più come bestie, animali fantastici, più che personaggi a tutto tondo. Per questo era per me una sorta di bestiario che un po’ riprendeva il Bestiario di Julio Cortàzar: anche lui ironizza moltissimo, ha uno humor molto argentino nelle sue elaborazioni poetiche (e politiche anche). Successivamente, questo bestiario si è trasformato in questo capannello di donne che confabulano tra di loro creando confusione, disordine e caos.