Il coraggio di un fotoreporter: Daniel Berehulak
E’ tra i fotogiornalisti più premiati degli ultimi anni: tre volte tra i vincitori del World Press Photo, nel 2015 è stato nominato Photographer of the year da Pictures Of The Year International e ha ricevuto il prestigioso Premio Pulitzer nella categoria Feature Photography dedicata ai reportage. Ha lavorato per Getty Images a Londra e New Delhi e oggi collabora come free lance con numerosi giornali e riviste.
Australiano di origini ucraine, 39 anni, Daniel Berehulak non ha paura di andare lì dove pochi vanno e pochissimi restano più di qualche giorno: nei luoghi di conflitti, disastri naturali ed epidemie per documentare tragedie quotidiane e cataclismi straordinari.
Ha fotografato la guerra e le elezioni in Afghanistan, la rivoluzione in Egitto, le alluvioni in Pakistan, il terremoto in Nepal. Il premio Pulizer l’ha vinto per gli scatti sull’epidemia di ebola in Liberia, Sierra Leone e Guinea dove è andato nel 2014 su incarico del New York Times, immagini che hanno accompagnato articoli su giornali di tutto il mondo.
Berehulak ha trascorso più di quattro mesi nei paesi colpiti dall’epidemia, più di qualsiasi altro reporter, vivendo con le famiglie che subivano ogni giorno sulla propria pelle la devastazione della morte. Non è stato semplice, emotivamente e fisicamente, ammette il fotografo in un’intervista al periodico portoghese “Pùblico”, ma era necessario.
Conoscere bene ciò che si fotografa è il modo migliore per dare senso al proprio lavoro e trasmetterlo al resto del mondo. “Non punto l’obiettivo su persone a caso” ha dichiarato. “Cerco di stabilire un rapporto con la gente, sorridere, fargli capire chi sono. A partire dal momento in cui si crea questa empatia, la macchina fotografica è presente, ma la uso solo quando succede qualcosa, quando è necessario”. E per questo occorre molta pazienza, qualità indispensabile per un fotografo. Affermazioni che ricordano le parole del grandissimo fotografo Sebastiao Salgado.
Berehulak è convinto che sia un dovere dei giornalisti raccontare le storie di queste persone per suscitare l’interesse dell’opinione pubblica e gli aiuti dei governi. È molto più facile dimenticare le tragedie se non sono documentate. Molti giornalisti preferiscono fotografare guerre piuttosto che epidemie e carestie perché paradossalmente è più sicuro e ha una lunga tradizione di reporter di successo. “Scattare una foto è facile, ma farlo in sicurezza in un ambiente ostile è già metà della fatica” spiega.
L’altra metà è conoscere ciò che si sta fotografando ed essere capaci di comunicarlo al mondo.