Cinema

Un secolo di #MarioBava: La strada per il Far West

Fausto Vernazzani

Dal 1914 al 2014: il centenario di Mario Bava festeggiato con una serie di focus / Una doppia incursione di scarso successo nel crescente mondo dello spaghetti western.

Il ricordo costruisce la verità su Mario Bava, ritratto a molti anni dal suo ultimo film solo come regista horror da tutti gli italiani, dimentichi che il raggio d’influenza partito in quei 17 anni di lavoro ha incluso praticamente ogni genere in voga ai suoi tempi. Se ce n’è uno in cui però non ha, a tutti gli effetti, aggiunto nulla, è proprio lo spaghetti western, un genere in cui non è stato capace di eccellere come in tutti gli altri in cui si è cimentato.

L’anno 1964 lo ricordiamo come un momento seminale per la nascita del western all’italiana, in Almeria un giovane Sergio Leone stava dirigendo il remake (illegittimo) di Yojimbo, di Akira Kurosawa, intitolato Per un pugno di dollari, mentre nella meno scenica Italia Bava avviò con pochi mezzi le riprese de La strada per Fort Alamo sotto lo pseudonimo John Old. Uno divenne famoso, l’altro ancora oggi introvabile nel mercato italiano, entrambi nati da ispirazioni che più diverse non si può.

Il cinema giapponese negli anni Cinquanta aveva colpito con la forza di uno Tsunami l’immaginario occidentale, Kurosawa pose le basi per una matrice copiata e incollata da statunitensi e non per re-immaginare alcuni dei loro soggetti preferiti. Così nacquero I magnifici sette di John Sturges e ci fu appunto il cinema di Leone. Bava non condivideva nulla con un’idea di western “italianizzato”, la frontiera per il sanremese era una e soltanto una: quella dei film di John Ford.

Terminato il giallo Sei donne per l’assassino salì in sella al cavallo e fece de La strada per Fort Alamo un western classico dove tutti gli elementi delle opere del tempo che fu si incontrano e stringono la mano. Lo statuario Ken Clark è un possidente terriero privato di tutti i suoi beni a causa degli indiani d’America, deciso a far la cosa giusta e avvisare il paese vicino del pericolo imminente. La sorte gli volta le spalle e l’onestà lo spinge a difendere un fuorilegge da un baro durante una partita di poker, risultando in una fuga dallo sceriffo e nella spinta a cercarsi giustizia da solo: fingersi nordista insieme ai nuovi colleghi e rubare le paghe dei soldati alla banca.
Affidarsi a dei banditi non è mai buona idea e presto si troveranno tra le grinfie dei veri soldati, dove è tenuta prigioniera Jany Clair, dalla sinuosa chioma rossa e le spalle scoperte, con cui saranno costretti a fingere per sopravvivere nella terra “infestata” dagli indigeni.

Tanto amore per il classico è risultato in un’opera minore, di cui ci si ricorda con piacere l’uso dei colori, baviani fin nel midollo, quasi appartenessero appunto ad uno dei suoi gialli. Gli sfondi realizzati con precisione matematica in modo da sfruttare la profondità di campo per creare l’impressione di essere per davvero nelle vaste terre del Far West sono ad esempio l’ennesima prova dell’ingegno di Mario Bava, un uomo capace di tirarsi fuori da ogni impaccio grazie alla sua familiarità con la macchina da presa, qui unico vero protagonista a cui val la pena dar retta.

Intanto nel 1965 Duccio Tessari lascia il segno con Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo, un duetto scoppiettante con il compianto Giuliano Gemma che spianava la strada al futuro Trinità di Barboni, conferendo allo spaghetti western una gran dose di ironia che Leone sfruttava a metà e Sergio Corbucci sfiorava raramente. Quattro anni e cinque film dopo, Bava aderisce al modello di Tessari e gira Roy Colt & Winchester Jack, anch’esso da considerarsi uno dei minori prodotti della sua carriera.

Roy/Brett Halsey e Jack/Charles Southwood sono due antesignani di Bud Spencer e Terence Hill, con una sostanziale differenza: se i successori si alimentavano con un conflitto tra caratteri diversi e la loro opposta fisicità, Roy e Jack sono come due fratelli gemelli scatenati contro se stessi proprio per le loro somiglianze. Entrambi banditi, si separano dopo l’ennesima zuffa, fingendosi onesti furfanti e onesti cittadini per derubare gli uni e gli altri, per finir poi con le mani vuote a causa dell’indiana Mahila/Marilù Tolo, una sexy truffatrice indiana che li seduce sfruttando, fino in fondo e senza remore, il proprio corpo come mezzo di persuasione.

Roy Colt & Winchester Jack vorrebbe essere una commedia frizzante, ma tutto ciò che riesce ad essere rimane nel campo del triviale e pecoreccio, con gag scatologiche che prendono il sopravvento riducendosi ad una serie di comuni banalità una dopo l’altra. Uno dei pochi casi nella filmografia di Bava in cui il suo fervore tecnico non prevale sulla narrazione lasciando così ben poco per cui nutrire interesse o affetto. Per fortuna in ambedue i casi svariati film sono arrivati a confermare come si sia trattato meramente di casi episodici e che Bava aveva ancora tanto da dare.

I precedenti articoli della serie Un secolo di #MarioBava:
Un impermeabile per l’assassino /
La maschera del gotico /
Il peplum e la fotografia.

 



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti