Un secolo di #MarioBava: La maschera del gotico
Dal 1914 al 2014: il centenario di Mario Bava festeggiato con una serie di focus / Il gotico de La maschera del demonio e l’horror d’atmosfera.
Il 1960 fu un anno speciale per l’Italia, due pellicole uscirono sul grande schermo ed entrambe fecero la storia del cinema. La prima fu, ovviamente, La dolce vita di Federico Fellini, conosciuto in tutto il mondo come uno dei massimi capolavori della settima arte, l’altro fu invece l’esordio alla regia di un autore “minore”, un problem solver, come lo definisce Alberto Pezzotta nella sua monografia per la serie Il castoro cinema: Mario Bava con il suo grande classico del cinema horror e del gotico La maschera del demonio, anche conosciuto all’estero come Black Sunday.
Erano anni importanti per il cinema di genere, con la fantascienza che iniziava a svilupparsi e a slegarsi dall’esplicito riferimento al terrore di un conflitto nucleare con l’Unione Sovietica e l’horror rinnovatosi grazie ad una casa di produzione inglese ancora oggi famosa per i suoi lavori, la Hammer Film Productions. Alla fine degli anni Cinquanta la Hammer riportò in auge i mostri della Universal, da Frankenstein a Dracula, dalla Mummia al Fantasma dell’Opera, grandi successi commerciali (oggi anche critici) che spesso e volentieri vedevano Peter Cushing e Christopher Lee l’uno contro l’altro, il primo creatore o distruttore, il secondo sempre mostro.
L’uscita de La maschera di Frankenstein (non sembra un caso la somiglianza tra il titolo italiano del film Fisher nel 1957 e l’opera prima di Bava) segnò uno spartiacque per il cinema horror italiano, nato nel 1956 con I vampiri di Riccardo Freda, dove orrore e fantascienza si fondevano come nella serie di Quatermass della Hammer aggiungendoci però un tocco gotico, un’atmosfera raccapricciante dove l’odore dei tempi passati era prominente. La maschera del demonio di Mario Bava è uno dei pochi film della storia del cinema ad appartenere ad un filone gotico puro: l’antico, il passato, i fantasmi che tornano a infestare l’uomo dopo anni di silenzio hanno caratterizzato gran parte della produzione del sanremese.
La scelta più naturale per un regista come Bava era proprio quella di dare all’ambientazione un ruolo fondamentale, attorno a cui costruire le sue narrazioni, meno importanti della tecnica, meno rilevanti dell’oggetto, che in taluni casi poteva essere l’attore stesso. Ne La maschera del demonio, adattamento libero de Il Vij di Gogol, è impossibile vedere Barbara Steele come qualcosa di diverso da un qualunque altro oggetto di scena, ingaggiata proprio per i suoi occhi spiritati e la sensualità sommessa di cui è pervasa la sua fisicità innocente. Nel suo doppio ruolo della strega Asa e della giovane Katja, sua discendente, la Steele funziona da specchio per le allodole per tutti i trucchi del suo regista, che tra una nebbiolina delicata e l’oscurità del castello in Russia dove ci troviamo , avvolge lo spettatore in una scena che parla.
Tre anni dopo e tre film dopo, Bava tornerà al gotico con La frusta e il corpo, uno dei suoi capolavori, forse seppellito dalla grandezza di altri titoli, dove ancora ruba a piene mani dalla Hammer, scegliendo nuovamente Christopher Lee come villain, erede malvagio di una famiglia segnata da violenza e incesto ossessionata dagli orrori da lui commessi tanto in vita quanto nella morte che avverrà sullo schermo. Perché il fantasma di Lee/Kurt è l’essenza di quei paesaggi orrorifici protagonisti del gotico à la Bava, tutto deve comunicare una sensazione ed è quest’ultima il fine: dare allo spettatore un brivido di paura, e la forma è il modo migliore per raggiungere l’obiettivo, la macchina da presa con i suoi movimenti e le luci con i loro colori.
Lo fa anche con una selezione vicina agli spunti narrativi di quegli scrittori come Bram Stoker, che scelsero terre lontane per descrivere i loro orrori, avvicinandosi alle leggende est europee, ambientando la sua storia in un castello russo come ne La maschera del demonio o il villaggio de I Wurdalak (con un Boris Karloff quasi caricaturale), secondo episodio de I tre volti della paura, o concentrandosi sulla regione mitteleuropea de La frusta e il corpo e de Gli orrori del castello di Norimberga, uno dei suoi film minori, ma sempre efficace storia d’atmosfera e di fantasmi.
Predilige dunque il lontano, il remoto alla patria del genere gotico stesso, i cui primi padri furono gli inglesi Horace Walpole (Il castello di Otranto) e Ann Radcliffe (L’italiano) e l’irlandese Charles Robert Maturin (Melmoth l’errante). Le leggende dell’est richiamano ad ambienti spettrali e i fantasmi di Dickens e Doyle sono abbandonati da un Bava che cede al classico, al riconoscibile, ai vampiri e alle streghe che tutti conoscono: troppo impegno ci vorrebbe per creare da capo qualcosa di nuovo, troppo ingegno da togliere al suo amato modo artigianale di fare cinema.
I precedenti articoli della serie Un secolo di #MarioBava:
Il peplum e la fotografia.