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Allievi registi alle prese con la drammaturgia di Federico Garcia Lorca: occhi verso il futuro

Redazione

In passato ci è capitato di tessere le lodi del lavoro compiuto, ancora oggi con risultati più che soddisfacenti in Italia, dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma nel fornire a numerosi talenti della giovane scena contemporanea gli strumenti adatti a farsi strada nell’impervio mondo del teatro. Ne sono stati esempi, da noi rilevati negli ultimi anni e in tempi non sospetti, gli ex allievi come il drammaturgo e regista Lorenzo Collalti (con la compagnia L’Uomo di Fumo, e quindi gli attori Lorenzo Parrotto, Luca Carbone, Flavio Francucci, Cosimo Frascella), l’attore e regista Carmelo Alù, la drammaturga Teresa Pasquini, la drammaturga e attrice Chiara Arrigoni (e i suoi compagni d’avventura de Le Ore Piccole, Andrea Ferrara e Massimo Leone), il regista Alessandro Businaro. Dove li abbiamo incontrati? Le occasioni, per fortuna, a Roma sono copiose: dal festival ContaminAzioni organizzato ogni anno dagli allievi dell’Accademia, ai saggi di diploma, a festival di indiscutibile valore come Dominio Pubblico dedicato alla scena (accademica e non) Under 25, agli studi intercorso aperti al pubblico. Attraverso questi ultimi, non è insolito veder interagire, in un dialogo affiatato tra passato e presente, i nuovi allievi e quelli che lo sono stati. Direttamente con una di queste occasioni ci siamo di recente confrontati: il progetto LORCA creato ad hoc dal regista e docente Arturo Cirillo per gli allievi del terzo anno del Corso di Regia. Gli allievi Danilo Capezzani, Caterina Dazzi e Federico Orsetti hanno messo in scena, rispettivamente, tre testi di Federico Garcia Lorca: Nozze di sangue, Aspettiamo cinque anni e Yerma, andati in scena al Teatro dei Dioscuri dal 12 al 21 dicembre.

Sarebbe azzardato offrire qui “recensioni” degli spettacoli in fieri, studi d’accademia in cui cimentarsi senza timore è un obbligo se si vuole progredire, oltre che un sacrosanto diritto degli allievi. Tuttavia, tenendo conto del contesto, e partendo dall’idea che offrire pareri sia una medicina necessaria, abbiamo preso qualche appunto critico che riteniamo utile condividere. Ve ne offriamo due.

 

Nozze di sangue

Nozze di sangue, diretto dall’allievo regista Danilo Capezzani, si avvale della presenza straordinaria di Diletta Masetti diplomatasi nel 2015, attrice trentenne in grado di aderire con devozione al suo personaggio – di certo non spontaneo per la sua giovane età – e a quella statuaria e rassicurante magnitudine personificata dalla madre dello sposo protagonista della pièce. Le “nozze di sangue” del titolo, infatti, riguardano come nel teatro dell’antica Grecia il tema delle colpe, anche inconsce, dei padri che ricadono sui figli. In un certo senso, il dramma viene provocato da una sorta di hýbris, innescato dall’aver preso sotto gamba il fatto che l’unico figlio superstite di una faida avvenuta molti anni prima voglia sposare una fanciulla che ha già avuto un corteggiatore in passato, ora sposato, e che, sfortuna vuole, sia proprio il figlio dell’artefice del duplice assassinio, del padre e del fratello dello sposo. Succede, quindi, come nel popolare film Se scappi, ti sposo, che la sposa fugga via mossa da altri desideri, nella fattispecie, quello irrealizzabile di ricongiungersi con il suo ex; e, come il titolo dell’opera in qualche modo “spoilera”, la vicenda termina con il sangue versato da entrambi gli amanti, a duello per l’oggetto comune di desiderio. La regia del giovane Capezzani ricorda solo in principio un certo stile “eduardiano”, improntata com’è, nell’interno domestico della scena, a un realismo parzialmente tradito sin da subito dal lirismo onirico della partitura sonora di Giacomo Vezzani. La prima scena incornicia lo sposo (Diego Giangrasso) dormiente su una sedia, e tutto lo spettacolo potrebbe essere riconducibile a un sogno, di cui gradualmente lo spettacolo assimila le forme, sia attingendo all’estetica metafisica (presenza di manichini e geometrie pure) sia attraverso l’uso espressionista di luci e ombre, sagome su sfondo circolare simile a una luna piena. La parziale vena realistica iniziale, invece, si nutre della cura certosina dei movimenti espressivi dei volti, dei costumi di ambientazione storica e, soprattutto, nell’utilizzo funzionale dello spazio scenico: le “quinte” sulla sinistra, con giusto intuito, non sono propriamente tali se non nella misura in cui sfruttano la presenza di un corridoio già presente nel Teatro dei Dioscuri, che in parte viene raggiunto dallo sguardo dello spettatore, diventando un’ipotetica altra stanza della casa dello sposo, una cucina da cui entra ed esce Masetti, donna sorprendentemente matura e convincente nella sua interpretazione. Seppur autoritaria – ma solo perché ormai vedova – la sua figura è tutt’altro che moderna nel mondo ritratto da Lorca, fatto di donne succubi dei loro mariti e incastrate nei ruoli di spose e madri. Altra attrice diplomata del cast è stata Verdiana Costanzo: brava, ma la regia le ha affidato due ruoli – quello di vicina di casa e di governante della sposa – che, anche se secondari, rischiano di venire fraintesi dallo spettatore ignaro, creando una maldestra sovrapposizione per mancata “sospensione dell’incredulità”.

(Renata Savo)

 

Yerma

Se è vero che il soggetto di Yerma tocca corde umane senza tempo, paure ancestrali e relativi cliché che non fatichiamo a sentire prossimi, è anche vero che l’idea di usare costumi pseudo-storici produce un effetto contrario. La regia del giovanissimo Federico Orsetti resta appesa a questa doppia andatura sotto molteplici aspetti. Da un lato la fascinazione per l’ambiente “originale”, una proiezione di cui si vuole mantenere il sapore di polvere e fatica della vita contadina spagnola, è percepibile. Dall’altro, si fa uso di brani coreografici e musicali che astraggono dall’effetto “antiquato”, dinamizzando i cambi scena sul ritmo di danze corali che rafforzano i passaggi onirici propri del linguaggio di Federico Garcia Lorca. Attraverso la scenografia e i citati costumi, si dipinge un paesaggio brullo, caldo, tra il color paglia e quello del sangue. Pregevole è l’idea di una direzione che concepisce l’insieme come una massa corporea (soprattutto visiva) di cui regolare, per così dire, la temperatura cromatica, compresa quelle dei corpi e delle voci. Serena Costalunga è una Yerma davvero intensa, che coglie i tratti più lirici del testo senza incorrere nel pericolo oleografico che le traduzioni dallo spagnolo spesso pongono. Spinge il personaggio in direzione di un naturalismo pieno di grazia, giustamente prosopopeico, sulle ali di un’energia che ben fanno sperare per il futuro della giovane allieva, di cui oltretutto è stato già fiutato il talento classificandosi tra i finalisti del Premio Hystrio alla Vocazione 2018. Domenico De Meo è Juan, la cui figura è tratteggiata esaltandone i caratteri collerici, forse appiattendone il ruolo nella scelta di una dimensione statica, anche dal punto di vista dei movimenti in scena. Da segnalare, Marco Selvatico nei macchiettistici panni di una saggia e salace vecchiarella, che fa il paio per esito comico con le due cognate e domestiche Adriano Exacoustos e Leonardo Ghini. Personaggi che danno una grande mano, grazie alle risate suscitate dall’interpretazione slapstick, ad alleggerire il flusso del dramma. In definitiva resta l’impressione di una buona riuscita, che però vorremmo rivedere senza il cammuflage inessenziale dei costumi, veli che hanno nascosto qualche rigidità nell’equilibrio d’insieme sul palco.

(Andrea Zangari)

 

Per approfondire:

Renata Savo, ContaminAzioni romane tra talento e perizia, 15.10.2016

Gertrude Cestiè, Arturo Cirillo // Non c’è amore senza dolore. Tre studi su R.W. Fassbinder, 04.04.2017

Renata Savo, Dominio Pubblico: scene dal futuro del teatro italiano, 14.06.2017

Gertrude Cestiè, “A chi si rivolgono le brutte copie di un maestro?”. Intervista all’attore e regista Carmelo Alù, in scena con “Filottete” di Letizia Russo, 15.12.2017

 

 



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