“La Borto” di Saverio La Ruina: elegia calabrese di una Mater coraggiosa
In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne (25 novembre), il Teatro Biblioteca Quarticciolo ha proposto un focus sul tema con spettacoli, conferenze e letture dal 20 al 25 novembre. In quest’ambito un’attenzione particolare è andata all’opera di Saverio La Ruina, attore e drammaturgo di Scena Verticale, di cui sono stati presentati tre lavori: Dissonorata. Un delitto d’onore il Calabria, La Borto e Polvere. Dialogo tra uomo e donna.
La Borto andò in scena per la prima volta nel 2009, vincendo due tra i più importanti premi italiani: il Premio Ubu per “migliore testo italiano” e il Premio Hystrio per la drammaturgia nel 2010.
Una maglia intima di lana sottile, un pantalone scuro senza tempo e calze turchesi sotto gli zoccoli da donna di casa. Saverio La Ruina è Vittoria. Sola, seduta al centro del palco. Nata nel cuore della Calabria cosentina, Vittoria sogna Gesù circondato dai Dodici. Racconta a lui la sua vita, e confida a noi pubblico il racconto del racconto. Rigorosamente in dialetto cosentino, una marea sonora fatta di echi grecanici, intima e dura, così diversa dai dialetti geograficamente prossimi. La sua voce si accompagna alla colonna sonora originale di Gianfranco De Franco, anche lui sul palco, in fondo, di spalle, a suonare. Vittoria è maritata a forza, tredicenne, ad un infelice “sciancato” compaesano con più del doppio degli anni. Ne rimane incinta sette volte già prima di compiere i ventotto. Il sogno di Vittoria è crogiolo di fantasmi fatti del senso di colpa conculcato dalla società patriarcale. Forme notturne, introiettate, dello stigma impresso a fuoco dagli sguardi dei compaesani, o da quelli dei santi lungo la navata della chiesa. Riprovazione è anche nel volto di Gesù che in sogno le rinfaccia i peccati commessi. Anzi, “il” peccato: aver rifiutato l’ennesima gravidanza, ricorrendo come da antica e trista prassi alla “mammara”, al suo ferro da calza che, pungendo l’utero, dissangua il feto e la donna. Prima di lei, amiche e parenti ne sono state penetrate. Alcune, come spesso accadeva, perdendo la vita.
Vittoria descrive a Gesù la discesa verso la piazza del paese: drappelli di paesani appostati lungo la strada, davanti ai bar, come in processione, una sorta di Via Crucis dove le frustate arrivano con l’immaterialità dolorosissima degli sguardi. Sono occhiate analitiche, che sbranano il corpo secondo un osservare che slega le parti dal tutto. Meccanismo che è propriamente quello della pornografia: de-umanizzare l’organicità del corpo. Chi conosce la vita di paese al sud, non ha bisogno di didascalie per ricostruire una scena quantomeno consuetudinaria. Ed è proprio quel senso di quotidianità che misura la profondità dell’Inferno. Quotidianità e automatismo che trattengono il paesaggio calabro allo stato ancestrale, ben lontano dai clangori del Progresso, ancora dominato da Natura, sia pure spesso sotto nomi di Santi e Madonne. Il progresso in Calabria arrivò poi stanco e trafelato, per parti, ritardatario. Persino dopo la famosa legge 194 sull’aborto. Ma nessuno, meridionale e non, avrà difficoltà ad attualizzare e globalizzare quegli sguardi, riconoscendosi vittima e carnefice, o entrambi.
Il corpo di Vittoria sta, sulla scena, come ancora sotto il peso di quegli sguardi. Saverio La Ruina le dona la qualità miracolosa di una delicata femminilità, in grazia di un’interpretazione magistrale, totalmente diegetica. Il pathos narrativo è tutto nell’alternanza di compressione ed espansione intorno al baricentro contratto di Vittoria, l’equilibrio scenico viene calamitato intorno al luogo simbolo della deprivazione: il ventre, appunto. L’interpretazione non espande mai i volumi sonori e visivi, con trattenuti gesti e parole che, ricadendo delicate in prossimità del corpo, rendono legittimo il microfonaggio, per trasportare più lontano l’intimità della voce. Si lavora per sottrazione, così come lavora tragicamente la vita di Vittoria e di chi ne condivide le vicende: raschiando, risucchiando, lacerando. Figure del dolore oltre le quali la denuncia sociale appare chiara, ma sia pure implicita e scevra di retorica polemica. La natura di scandalo dell’essere-donna è così profondamente adesa al personaggio da divenire consustanziale al suo Essere. Il suo apparire stesso diventa segno vivente della contraddizione nel sistema patriarcale e nel suo meccanismo procreativo.
Ecco la perfezione dell’opera: spingere i termini della tragedia verso il fondo dell’anima, lontano dall’esplicito della narrazione, dove invece si libra un personaggio non convenzionale, unico, concreto e lirico. Che abbraccia fatalisticamente la sua condizione (si tratta di un fatalismo che è anche dato antropologico e culturale). L’evento dell’aborto entra così a fondo nell’identità di Vittoria da farsi nome: “La Borto”, appunto, come da titolo. Una maledizione che consente a La Ruina di tratteggiare in Vittoria riflessi mariani. Ella, infatti, sta, come appunto la Mater: una piccola sedia-trono è tutta la scenografia, come in un’icona. Nello stesso registro simbolico, i gesti di Vittoria descrivono una liturgia ieratica di lente torsioni del capo, mani che stanno compite sulle gambe, sospiri. Il tutto stemperato da vernacolare dose di sottile e saggia ironia. Ma dove la Vergine compivasi nell’assenso a farsi gravida, Vittoria si compie nel rifiuto. E quasi che Gesù appaia in sogno a chiedere conto di quel “no”, Vittoria risponde a lui e a se stessa operando un ribaltamento. Nella sua confessione il dolore della Croce sembra infine un nulla in confronto a quello, più semplice, meno decantato, dell’essere donna nella Calabria senza tempo.
[Immagine di copertina: “La Borto”. Foto Le Pera]