Bob Wilson // Oedipus Rex
“Oh Edipo, non t’avessi conosciuto mai!”. Ripetutamente, come una litania dapprima ipnotica e via via sempre più crudele, i personaggi dell’Oedipus di Bob Wilson si rivolgono al protagonista, colpevole – suo malgrado – di aver intrecciato col suo terribile fato anche quello di due città, Tebe e Corinto, causando tremende disgrazie.
Quanto siamo stati estasiati di conoscerlo noi, invece, attraverso l’opera del regista texano che ha inaugurato la rassegna di drammaturgia antica Pompeii Theatrum Mundi, al Teatro Grande del Parco Archeologico giovedì 5 Luglio, non è facile da spiegare.
Oedipus non è uno spettacolo composto dalla riconoscibile somma delle parti. È una totalità, all’interno della quale gli elementi potenziano al massimo la loro individualità, restando organicamente immersi nella struttura che li ospita e contribuendo al suo funzionamento. È una cellula, un autonomo essere vivente. È un bellissimo universo che risponde alle sue regole e Wilson ne è il Demiurgo.
Nato come progetto residenziale commissionato da Conversazioni/Ciclo di Spettacoli Classici, che si svolge ogni anno al Teatro Olimpico di Vicenza e dove andrà in scena il prossimo Ottobre, è stato una sfida nella sfida. Ormai non si contano più versioni e rivisitazioni (sia fedeli che liberamente ispirate) del testo di Sofocle. Possibile “rimaneggiarlo” ancora senza stancare lo spettatore? Anzi, magari stupendolo? A quanto pare, se sei Bob Wilson, sì.
La drammaturgia non coincide perfettamente con l’Oedipus Tyrannus sofocleo, ma traccia il percorso cronologico della storia del personaggio principale: nato a Tebe da Re Laio e Giocasta, Edipo verrà colpito ai piedi da suo padre e poi consegnato ad un pastore per essere abbandonato in montagna. Un oracolo ha infatti predetto al sovrano che, una volta cresciuto, suo figlio avrebbe ucciso lui e giaciuto con la madre. Ma, mosso a pietà, il servo di Laio lascia il bambino nelle mani di un altro pastore che lo porta con sé a Corinto, dove viene cresciuto da Re Polibo e sua moglie. Divenuto adulto, Edipo interrogherà l’oracolo di Delfi, ricevendo lo stesso responso: sarà l’assassino di suo padre e sposerà la madre. Immaginando che tutto riguardi i suoi genitori adottivi, lascia Corinto per recarsi a Tebe e, giunto in un trivio, incontra Laio scortato da quattro uomini. Non riconoscendolo come il sovrano della città, si rifiuta di cedergli il passaggio e, nello scontro, uccide il re e i suoi servitori, tranne uno. Arrivato a destinazione risponde correttamente all’enigma della Sfinge, liberando Tebe dall’essere demoniaco e, giunta la notizia della morte di Laio in circostanze poco chiare, viene proclamato nuovo re sposandone la vedova, Giocasta. Ma a Tebe scoppia la pestilenza. Interpellato il veggente Tiresia, si viene a sapere che non vi sarà pace fino a quando l’assassino di Laio non verrà punito. Edipo interroga l’unico servitore superstite al massacro, scoprendo di essere lui il colpevole. I pezzi del puzzle si ricompongono. Giocasta, che da Edipo ha avuto quattro figli, si impicca per la vergogna. Edipo, scoperto il cadavere della madre-amata, si acceca con le fibbie delle cinghie della veste di lei.
Questi i fatti, giunti attraverso i secoli fino a noi, che Wilson fa raccontare a premessa di cinque sezioni da due “testimoni”, un anziano uomo e una donna imbellettata, per fornire la cornice. In più lingue, come gli interventi durante la pièce, perché per questo artista forse non c’è stato mito che più abbia saputo attraversare i confini temporali, geografici e culturali. Ma, nel mezzo, compaiono gli episodi salienti (l’ingresso dei protagonisti, l’uccisione di Laio, il matrimonio con Giocasta,…) scomposti e dilatati allo stesso tempo. Non ci sono scambi di battute, ma interazioni di corpi e di sguardi. Il silenzio pesa quanto le parole, che non veicolano il messaggio puro, ma rappresentano una parte di esso, un suono che si completa attraverso tutti gli altri elementi: luce o buio, contatto o distacco, movimento o immobilità. Tutto è significante, tutto è significato.
Un esempio? La presentazione del primo quadro è praticamente un tableau vivant. Ogni personaggio chiamato ad esercitare un ruolo nella storia si fa spazio sul palcoscenico e mostra la sua essenza con la semplice presenza e l’ausilio dei costumi, “modernamente antichizzati”, che si integrano alla perfezione con la scenografia naturale degli scavi (luogo ideale per vocazione in cui tutta la tecnologia di cui Wilson si avvale non stona, anzi, esalta). Giocasta è imprigionata nella “scatola-trono” del suo ruolo: regina-sposa-vedova del re. Tiresia procede per tutta la lunghezza del palco con il solo aiuto di un bastone, lentissimo ma costantemente inesorabile, come le sue predizioni.
L’assassinio di Laio è una danza, somigliante ad un propiziatorio rito di soldati devoti ad antichi dèi, che cinque uomini tengono su lastre di metallo posizionate in terra. Ogni colpo di piedi genera un rumore che il metallo espande come un’eco (alimentata dalla tecnologia) e crea il rimbombo di un temporale in avvicinamento, al quale segue il lampo visivo ed ecco il contraccolpo nelle braccia. Una battaglia simbolica, contro gli altri ma anche di Edipo – in quel momento ancora ignaro di tutto – contro se stesso.
Come tradizione classica vuole, le transizioni sono affidate al “coro”, che qui non parla: si muove, anche a ritmo di jazz. Passa, lascia il segno del cambiamento e va via, come nella ritmata e cupa danza con dei rami verdi per sottolineare la drammaticità del matrimonio tra Edipo e Giocasta (stridente contraddizione della fertilità incestuosa, completamente opposta a ciò che dovrebbe canonicamente essere un momento di gioia). Ma anche nel momento prima della rivelazione in cui, mentre la testimone racconta, sedie vuote vengono trasportate fino a riempire pian piano tutto lo spazio scenico aspettando che qualcuno (la verità?) le occupi.
Il buio in cui cade Edipo cieco, che preferisce lesionare le sue pupille anziché continuare ad essere testimone di una verità così orrenda, chiude il ciclo con il prologo, la prima immagine mostrata agli spettatori prima che tutto iniziasse: un uomo, solo, di spalle, cammina lentissimo verso una porta illuminata sul fondo. È la verità. Man mano che avanza, la luce cambia gradatamente la sua presenza, senza scatti o traumi. Tramonta, fino a cedere il passo all’oscurità, quella che Edipo, incapace (come tutti gli uomini, secondo la visione di quel tempo) di sfuggire al suo destino, preferirà alla fine della sua triste avventura.