John Murry – A Short History Of Decay
La voce roca, il volto emaciato e lo sguardo tagliente. John Murry, all’anagrafe 37 anni, sulle spalle almeno 57, si presenta – in copertina e nella vita – come l’uomo che nessuno vorrebbe diventare: rabbuiato e pensoso, atterrito da una vita logorante, la stessa con cui appella le dieci storie di A Short History of Decay, una breve storia di decadimento, appunto. La non brillante carriera (la collaborazione con Bob Frank e Tim Mooney, batterista degli American Music Club nonché suo produttore, scomparso nel 2012) ha concorso alla sua depressione da artista maledetto. Originario del Mississippi, parente alla lontana di William Faulkner (che ne porti la pesante eredità?), precedentemente detenuto in carcere, infine tossicodipendente e con un divorzio mai digerito, Murry colpisce per un timbro vocale affascinante e insituabile, (magicamente) dismesso e cavernoso, ma mai raggelante come il suo triste passato.
Nascono così ballate strazianti e ovvie nei loro rimandi a Nick Cave o Hugo Race (buon sangue non mente!), come Silver or Lead, basilarmente montata sul suono di un pianoforte agrodolce e Miss Magdalene, pezzo raffinatissimo e capace di abbracciare il miglior Cohen d’annata, ma anche melodie più graffianti come When God Walks In e One Day (You’ll Die), fusione di blues e rock, perforante per le parole, emblema del processo di decadimento cominciato con The Graceless Age (2013). Ma quest’uomo (dis)piace per la sua capacità minimalista ed essenziale di definirsi schiacciato: in Wrong Man, il singolo che aveva anticipato l’uscita dell’album, la sua voce springsteeniana si mescola alla delicatezza di chitarre acustiche e tamburi appena sfiorati, mentre un certo rock, più brumoso in Defacing Sunday Bulletins, più energico in Countess Lola’s Blues (All in This Together), corona questo lavoro sapientemente studiato anche grazie al supporto di Michael Timmins dei Cowboy Junkies. Ciliegina su una torta mangiata finora con gusto è la cover degli Afghan Whigs, What Jail Is Like, posta in chiusura di un disco che si misura orgogliosamente con atmosfere à la Alexander Payne (Nebraska). Un ascolto consigliatissimo.