Vetrina. “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”
La vita e i dilemmi di David Foster Wallace indagati dall’acuta precisione di D. T. Max.
Fra le cose che una buona biografia dovrebbe riuscire a portare a termine, c’è il saper cogliere l’aspetto fondamentale della vita del personaggio di cui si occupa. Ancor meglio, e poiché di aspetti fondamentali nell’esistenza di un individuo ce ne sono tanti, è la capacità di scelta, di selezione del nodo scorsoio da sciogliere, da cui dipendono tutti gli altri legami. Questo, nel caso di David Foster Wallace e per come è presentato nella biografia curata da D. T. Max, sta nel linguaggio, e nel rapporto che quest’ultimo ha con l’esperienza. Da famelico lettore quale fu fin dall’infanzia, infatti, Wallace ci mise relativamente poco (era appena ventenne) ad addentrarsi negli affascinanti e complessi territori setacciati da Derrida e Wittgenstein – suo libro-feticcio era non a caso il Tractatus, da lui citato come un mantra. E questa tendenza a de-strutturare, a chiedersi fin dove arrivassero le parole, le forme letterarie, quali fossero i loro confini e soprattutto perché esistessero, tutto questo era Wallace fin nel midollo: era lo specchio spoglio del suo atteggiamento verso se stesso, della narrazione che intesseva quotidianamente con il sé. Sofferta, dolorosamente ipercritica, chiaramente (per l’epilogo che tutti sappiamo) insostenibile.
La scrittura per Wallace era un coltello grossmaniano per disossare il mondo e tutti coloro che lo abitavano. Nessun salvato, nessun superstite, nemmeno lui. Wallace era punto d’arrivo e d’approdo – di fatto, lo è stato – del processo di distruzione di massa della società massificata da lui stesso innescato. Naturalmente, da quel mondo si è distinto, si distingue ancora: si vede quanto D. T. Max, nel corso della sua fluviale e minuziosissima biografia, della sua ricerca accurata e quasi maniacale, abbia voluto sottolinearlo. E la prospettiva, il taglio, per cui ha optato nell’approntarla, ne è la spiegazione e insieme la motivazione. Perché limitarsi a descrivere l’opera d’arte per identificare l’artista, a ripercorrere la genesi del libro per arrivare al suo autore, si sarebbe rivelato riduttivo. E anche un po’ pleonastico. Nell’arte, nella scrittura in particolare – universale quasi quanto la musica – a fare la differenza sono le esitazioni, gli errori, i ripensamenti. La ragione sta nel dubbio, nelle paure, negli interrogativi: quelle domande che puntellano il testo, con cui Wallace si tormentava l’animo e che pur rappresentavano lo scoccare fatidico di una forza creativa fuori dall’ordinario. È il come e il perché nasce il genio, dato che il cosa ha fatto lo sappiamo più o meno tutti. Questo, al di sopra dell’insistente e a volte fastidiosa inclinazione al dettaglio, a un carico di informazioni eccessivo e impossibile da memorizzare, è il principale merito della biografia di Max: l’aver restituito l’anima dell’artista, e ciò che ha patito, con una freddezza chirurgica ma lontana dall’essere spietata. L’aver detto, nella sordina di migliaia di righe: ecco il prezzo che ha pagato.
- Genere: Biografia