Dialoghi. Intervista a Silvia Albertazzi
L’intervista di SC a Silvia Albertazzi, docente di Letterature Anglofone dell’Università di Bologna e autrice del saggio “Belli e perdenti. Antieroi e post-eroi nella narrativa contemporanea di lingua inglese”
In occasione dell’uscita del nuovo saggio Belli e perdenti di Silvia Albertazzi, scrittrice e docente di Letterature Anglofone presso l’Università di Bologna, siamo riusciti a discorrere con lei della nascita del suo libro e delle questioni che vi sono alla base.
Belli e perdenti. Antieroi e post-eroi nella narrativa contemporanea di lingua inglese.
Partiamo dal sottotitolo – “Antieroi” e “post-eroi”: i prefissi sono da intendersi in maniera positiva o negativa?
E’ inevitabile chiedersi chi siano i “belli e perdenti” di cui ci parla e perché abbia scelto di scrivere di loro nel suo ultimo libro.
Penso che la prima cosa da mettere in chiaro sia che l’eroe non è necessariamente una figura positiva o, meglio, è una figura con la quale è difficile – impossibile, direi – identificarsi: nell’eroe si sommano, all’ennesima potenza, quelle virtù e quei traguardi che noi comuni mortali non potremo mai raggiungere completamente. L’antieroe – da non confondersi con l’antagonista, che è quasi sempre il contraltare negativo dell’eroe – è invece il personaggio che ci somiglia di più, perché è un comune mortale, che non riesce a ottenere i successi dell’eroe, o che addirittura ne rifiuta la possibilità, se questo implica scendere a compromessi. In questo senso, se l’eroe è sempre “bello e vincente”, l’antieroe può essere “bello e perdente”, proprio perché la sua bellezza gli viene dall’accettazione del rischio che comporta la sua fede negli ideali che lo sorreggono, e dalla dignità che mostra nell’andare incontro alla propria sconfitta. Quanto al post-eroe, è il perdente dell’era postmoderna, la vittima del pensiero debole, che rinuncia alla lotta prima di cominciarla, e non ha più ideali per cui combattere.
Nelle prime pagine del libro dice di essere rimasta colpita dalla presenza di un’appendice letteraria in un libro di Economia e Sociologia sulla figura del perdente nella letteratura americana contemporanea, dove viene messa in relazione l’esistenza di questa tipologia di personaggi con quella del Sogno Americano. Muovendo da questa premessa lei ha scelto di estendere l’analisi abbracciando le letterature di altri Paesi di lingua inglese. Immagino che questo sia dovuto alla sua attività accademica, ma forse è anche motivato dal legame tra questi Paesi e gli Stati Uniti? Penso ad esempio al “neocolonialismo culturale” esercitato da questi ultimi e allo stesso tempo alla sua messa in discussione da importanti scrittori “postcoloniali”.
Scott Sandage, l’autore del libro sulla storia del fallimento negli USA, dice che il perdente è l’altra faccia del sogno americano. Certo anche i “Belli e perdenti” degli anni Sessanta e Settanta, a qualsiasi latitudine, sarebbero impensabili senza le grandi utopie rivoluzionarie che infiammarono tutto l’Occidente in quel periodo. A me, però, interessava sottolineare come, mentre alle rivolte di quei decenni nelle aree metropolitane anglofone faceva seguito da un lato il cosiddetto riflusso, dall’altro l’imporsi di un atteggiamento sociale caratterizzato da arrivismo, ambizione sfrenata, carrierismo ed egocentrismo assoluto, dalle ex colonie giungeva un messaggio opposto, un’idea di comunità, di nazione intesa come sogno collettivo di indipendenza e liberazione, quale si può trovare, per esempio, nel romanzo I figli della mezzanotte di Salman Rushdie. Qui si impone un altro tipo di “bello e perdente”, la cui bellezza appare non solo nella dignità con cui va incontro alla sconfitta, ma anche e soprattutto nella sua capacità di trasformare la sconfitta stessa in narrazione magica. E’ il trionfo della parola che salva, l’apoteosi della narrazione come atto di sopravvivenza, oltre la fine. E se nei Figli della mezzanotte e in altri lavori coevi di autori postcoloniali di lingua inglese, il colonialismo cui si oppongono i protagonisti è quello britannico, in altre opere, più recenti, il “bello e perdente” è sconfitto piuttosto dal neocolonialismo (non solo culturale) americano: penso, per esempio, al romanzo Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid, dove il protagonista pakistano è riluttante ad abbracciare non il fondamentalismo religioso cui l’ambientazione post 9/11 settembre farebbe pensare, ma il fondamentalismo capitalista statunitense.
E in Italia? Quali sono i nostri “Beautiful Losers”? Nel suo testo allinea l’evoluzione, o forse più precisamente l’involuzione, del “loser” a quella della perdita di ideali nella contemporaneità. Eppure mi viene in mente un episodio abbastanza recente in cui è stato pubblicamente condannato il fatto di avere ideali forti; mi riferisco al discorso della Fornero che additava i giovani come troppo “choosy”. Potremmo dire allora che i “choosy” sono una nuova mutazione del fallito, ovvero coloro che non si rassegnano, ma che di fatto non sono autonomi? (Credo sia molto importante sottolineare, come lei ha fatto, che nella nostra lingua “Loser” significa sia “perdente” che “fallito”).
Proprio perché è importante tenere sempre a mente la differenza tra perdente e fallito, non etichetterei a priori come un fallito il giovane che si riserva di scegliere il proprio posto nel mondo, anche a costo di gravi delusioni. Fallito mi sembra piuttosto colui o colei che si rassegna alla situazione e la accetta passivamente, e comunque non generalizzerei neppure in questo caso: se chi svolge un lavoro sottopagato e di molto inferiore alle proprie aspirazioni lo fa con dignità, non per scelta ma costretto dalla necessità, mi sembra ingiusto dargli del fallito. Il problema, semmai, è in ciò che intendiamo per “ideali forti”: volere un lavoro all’altezza delle proprie competenze non è un “ideale”, né forte né debole, è una comprensibile aspirazione. Gli ideali sono altro: son quelle “cause in cui perdersi” per cui Hanif Kureishi (e chi, come me, appartiene alla sua generazione) avverte tanta nostalgia. Se c’è qualcosa da obiettare ai giovani, non è che sono schizzinosi: è, semmai, che non sono più capaci di farsi sentire, che sembrano sempre più rassegnarsi, come i protagonisti del romanzo di Dyer Brixton Bop, al ruolo di generazione “così perduta da essere praticamente estinta”.
Il “bello e perdente” per lei è un personaggio letterario o reale?
Da quanto detto sinora, mi sembra evidente che per me il “bello e perdente” è un individuo reperibile nella realtà di ogni giorno, anche se, ovviamente, essendo una critica letteraria e non una sociologa, nel libro mi occupo solo di personaggi cartacei. Ma posso assicurare che di belli e perdenti ne ho conosciuti tanti, e qualcuno lo conosco ancora, e il mio libro vuole essere un omaggio a quelli che non ci sono più, che se ne sono andati troppo giovani, lasciandoci solo il riflesso della loro bellezza.
- Genere: Saggistica