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“Body of Knowledge” di Samara Hersch per “FUORI! Festival”: adolescenti al centro della storia

Silvia Maiuri

La distrazione è oggi un espediente abusato da tutte le generazioni; durante le pause evitiamo l’ozio – latinamente inteso come occasione di contemplazione ed esercizio degli interessi personali – quotidianamente “scrollando” le vite degli altri per mezzo di uno strumento egemone: lo smartphone. Ciò che ci è soprattutto permesso di non fare col telefono in mano è guardare in faccia gli altri, gli astanti in fila con noi, una qualsiasi fila, in viaggio sul treno, su una nave. La condizione statica in cui ci troviamo in questi momenti li rende così dei “nontempi”, volendo azzardare una appropriazione del concetto moderno di “nonluoghi” teorizzato dal filoso Marc Augé per indicare quei luoghi non identitari e non relazionali, destinati invece a essere di passaggio per la circolazione accelerata di chi li attraversa. Rafforza questo scenario l’impero del social network e l’imposizione dello smartphone come primo strumento di relazione sociale, protesi del nostro essere e apparire. Non vuole questa essere una critica all’utilizzo che normalmente ognuno di noi fa del suo strumento, ma una riflessione invece, perché il primo atto che fa Body of Knowledge è quello di privarci dello strumento e sostituirlo con un altro. All’ingresso dell’ex chiesa di San Mattia a Bologna, luogo in cui si è svolta la performance immersiva creata dall’artista australiana Samara Hersch (presente al desk accoglienza) per FUORI! Festival insieme a nove adolescenti della città, dodici vaschette di plastica colorate sono lì per diventare culla del riposo dei nostri smartphone, siamo dodici partecipanti.

“Body of Knowledge”. Foto di Margherita Caprilli

Ci viene affidato in cambio un altro smarphone per ciascuno, praticamente simile al nostro ma con la differenza che questo è lo strumento di un adolescente e lo si può riconoscere dalla cover: band musicali, super eroi Marvel etc. C’è Whatsapp, nient’altro, non possiamo usarlo per andare online, né curiosare sui social. Durante la lunga attesa che separa il nostro arrivo dall’inizio dell’esperienza restiamo privi della nostra principale distrazione, dodici sconosciuti in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa che colmi il vuoto e l’imbarazzo di stare insieme in silenzio, in attesa fuori da una chiesa. Ed è in questo momento, nel nostro guardarci negli occhi e non sapere se scambiarci informazioni – Piacere, sono Silvia. Di dove sei? Come hai saputo dello spettacolo? – o soltanto sorrisi timidi, che inizia Body of Knowledge. Stiamo in silenzio, quelle domande ce le faremo alla fine anche se adesso non lo immaginiamo, non lo crediamo necessario, né importante. Il nostro corpo è l’unica cosa che conta, il nostro corpo in attesa che non conosce il percorso da compiere di lì a poco e che non sa di avere gli strumenti per affrontarlo.

Una volta dentro veniamo disposti in cerchio su delle sedie nere, la Hersch si è allontanata, sta alla regia e non interverrà durante tutta la durata della performance. Stiamo aspettando una telefonata sul nostro nuovo smartphone. Squilla il primo, una di noi risponde. Dalle cose che dice sembra essersi velocemente instaurata tra lei e l’interlocutore al telefono una confidenza che risulta strana tra due persone che non si conoscono e non si sono mai viste. Stanno parlando di qualcosa che ha a che fare col crescere, con il tempo dell’adolescenza, di quando finisce, di quando ci si sente grandi. Alle domande dell’interlocutore invisibile lei, che tutti ascoltiamo incuriositi, risponde cose come “Non so, forse quando è finita l’università e ho cominciato a lavorare. Forse in quel momento, quando ho dovuto assumermi nuove responsabilità… da adulta.” Dopo meno di un minuto tutti iniziamo a ricevere le nostre telefonate.

Cosa ognuno di noi si aspettasse entrando per assistere a una performance di Samara Hersch non è certo, magari tutti avevamo aspettative diverse, forse anche solo il desiderio di emozionarci, o la speranza di uscirne arricchiti; è questo che di solito spinge la gente a teatro. E forse però nessuno di noi si aspettava di essere così coinvolto, che le nostre parole sarebbero state il veicolo e il fulcro dell’intero progetto. Forse nessuno si aspettava che quella sera, uscendo dal posto di lavoro, entrando in una chiesa, avrebbe detto “Non lo so quando sono diventato grande”.

La bellezza di questo lavoro sta nella sua onestà e nel rischio che si assume. L’interazione di chi normalmente è spettatore lo mette in una situazione di disagio, ma immediatamente lo coinvolge nella costruzione. Man mano che si svolge la performance chi partecipa si rende sempre più conto di esserne il protagonista, percorrendo in circolo o in diagonale lo spazio vuoto della chiesa, come durante un training attoriale, condividendo con gente sconosciuta, adolescenti e adulti compagni di esperienza, informazioni intime su concetti concreti: la sessualità, la nostalgia e il desiderio di crescere, le opinioni politiche, l’ansia del domani. Ognuno riceve tre o quattro chiamate ritrovandosi a parlare con ragazzi e ragazze di 13, 15, 16 anni, da soli o in chiamate di gruppo. E man mano si prepara “la scena”: qualcuno a un certo punto cuoce al microonde una busta di pop corn, qualcun altro porta una borsa frigo piena di bevande fresche e poi tutti, seguendo le istruzioni al telefono, recuperiamo dei materassini da spiaggia a forma di tranci di pizza e uno ad uno entriamo sotto quella che davanti ai nostri occhi, da un patchwork di drappi, è diventata una enorme tenda Grand Canyon. Sotto quella tenda tutto è incredibile, è quasi magico, siamo di nuovo adolescenti, parte la musica e una piccola lampada proietta sulle nostre teste stelle luminose, fucsia e verdi, la tenda/capanna è coloratissima ed è stata realizzata con lenzuola e coperte, tutto riporta al nostro passato. Qualcuno avvia una chiamata di gruppo in viva voce e ora siamo noi, dodici partecipanti, e loro, nove adolescenti, e ognuno può dire ciò che vuole perché a questo punto non c’è più un copione, non ci sono domande scritte, ci sono solo degli elenchi di impressioni e ringraziamenti. I ragazzi e le ragazze in call dicono a turno cose come “Voglio ringraziare Aisha per avermi fatto sentire Eminem” o “Avrei voluto sapere prima che stasera tra voi ci sarebbe stata la mia prof di italiano!” e così via fino a esaurire tutti i “Voglio ringraziare” e i “Avrei voluto sapere prima”. Poi una delle ragazze canta una canzone senza imbarazzo, arrivano due pizze maxi dentro alla tenda, in sottofondo la playlist della nostra adolescenza, canzoni che noi dodici abbiamo dovuto inviare allo staff di Body of Knowledge due giorni prima e che messe insieme creano una colonna sonora stridente e divertente che va dal metal, al rap a Pino Daniele. Noi non ci alzeremo anche dopo i saluti, la chiamata è stata chiusa, e noi restiamo lì, dodici sconosciuti senza distrazioni con le nostre pizze, le birre, le nostre sensazioni da raccontarci e le nostre impressioni da scambiarci. E così, grazie a nove adolescenti sconosciuti (o quasi), abbiamo la possibilità di superarci, di essere vicini, di mettere i nostri corpi in relazione, di risuonare insieme, noi siamo “The” Body of Knowledge.

Come questa, anche le altre performance di FUORI! Festival hanno avuto l’interesse di mettere al centro dell’attenzione e portare nello spazio urbano di Bologna questioni che gli adolescenti e le adolescenti provano ad affrontare ogni giorno: l’educazione sessuale, la disforia di genere, la percezione del proprio corpo ma anche il cambiamento climatico, la responsabilità generazionale rispetto ai problemi socio-economici, la difficoltà di informazione in un’epoca di fake neews o semplicemente di troppa informazione, la violenza di genere, le aspettative, il desiderio di diventare grandi, la rivendicazione di essere giovani. FUORI! è un progetto sperimentale della durata di un anno, promosso dal Comune di Bologna e realizzato da Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, che ne ha affidato la curatela a Silvia Bottiroli, e che si è concluso con un festival internazionale, in programma dal 6 all’11 giugno 2023. In programma i lavori di Carolina Bianchi Y Cara de Cavalo, Bluemotion / Giorgina Pi, F. De Isabella, Samara Hersch, Mammalian Diving Reflex, Rory Pilgrim, Anna Rispoli. Il festival è stato anticipato e introdotto da un incontro pubblico con il lo scrittore spagnolo Paul B. Preciado, uno dei massimi esponenti della filosofia contemporanea, che ha presentato il suo nuovo saggio dal titolo esplicito: Dysphoria Mundi.

“Nightwalks With Teenagers”. Foto di Margherita Caprilli

Attraverso talk, installazioni, azioni pubbliche, passeggiate come Nightwalks With Teenagers ideata dal collettivo canadese Mammalian Diving Reflex – un giro del centro di Bologna guidato da un gruppo di adolescenti a ritmo di musica e colorato da fumogeni fucsia – e assemblee come Attrito di Anna Rispoli in cui studenti e studentesse dei licei bolognesi si  riappropriano dello spazio incolto della periferia prossimo alla gentrificazione per parlare di occupazione, di diritto allo studio e di crisi abitativa, del diritto alla ribellione e della sottocultura dei rave, FUORI! sembra avere l’aspirazione ad aprire un dialogo tra generazioni come primo passo per entrare nel futuro.

 

[Immagine di copertina: “Body of Knowledge”. Foto di Margherita Caprilli]

 



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