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“Lingua Madre – capsule per il futuro”: la riforma del linguaggio e della ritualità targata LAC

Roberta Leo

Il centro culturale svizzero LAC Lugano Arte e Cultura ha continuato in tempo di pandemia il suo lavoro attraverso una cospicua attività digitale, restando fedele al suo intento di creare un ecosistema sempre più saldo tra arte e cultura, capace di incontrare il presente e la sua comunità.

Lingua Madre – capsule per il futuro è la nuova produzione del LAC che dal 13 marzo sta portando avanti una programmazione ricca di appuntamenti che si snoderanno fino alla fine di maggio attraverso video artistici, creazioni sonore, testi, documentari, film, conferenze. Ideato da Carmelo Rifici, direttore artistico del LAC e da Paola Tripoli, direttrice artistica del FIT Festival, Lingua Madre è un grande progetto in cui tantissimi artisti, docenti e intellettuali convergono in un preciso manifesto, o meglio, in una dichiarazione d’intenti. Oltre a offrire una panoramica sulla scena contemporanea internazionale (da non perdere, ad esempio, Uncanny Valley di Stefan Kaegi, trasmesso il 23 marzo e in replica il 22 aprile), Lingua Madre riserva molta attenzione anche ai processi che sono dietro le creazioni e che, a loro volta, assumono così, all’interno di determinati linguaggi, una forma esteticamente rilevante.

Prossimi appuntamenti di questa settimana, che restano sempre ad accesso libero e gratuito (e disponibili sul sito www.luganolac.ch/lingua-madre): oggi, martedì 13 aprile, dalle ore 20:00 alle 23:00, The Sky over Kibera (in replica martedì 11 maggio) film che Marco Martinelli ha girato in uno slum di Nairobi reinventando il capolavoro dantesco della Divina Commedia grazie a 150 bambini e adolescenti keniot; giovedì 15 aprile dalle ore 9:00, Il corpo-poesia di Chiara Bersani, voce del verbo trasmettere, documentario che Lorenzo Conti ha realizzato in occasione della masterclass condotta da Chiara Bersani, performer vincitrice del Premio Ubu come Miglior performer Under35, insieme a Marta Ciappina presso la Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo di Milano; venerdì 16 aprile dalle ore 9:00, Thanatos, prima parte del più ampio progetto in cui si articola anche un percorso di conversazioni con attivisti ambientali, Metastasis, coproduzione LAC, di Gabriele Marangoni, musicista di fama internazionale, che viene qui interpretata dalla vocalist Francesca Dalla Monica e dall’attore Nello Provenzano, che esprimeranno la voce dolente del Pianeta Terra; e, ancora, sabato 17 aprile dalle ore 9:00, Appunti per un Predicato, coda di materiali analogici, testi e fotografie, che Riccardo Favaro, autore di Analisi Logica, organizza e condivide per Lingua Madre.

“Lingua Madre” pone in evidenza quali potrebbero essere le basi per una riforma del linguaggio scenico, della parola e del corpo, che, partendo dall’isolamento forzato conseguente alla pandemia, ha posto la necessità anche di una ritualità nuova, in cui parola esprima tutta la sua potenza evocativa. Ne abbiamo parlato con Carmelo Rifici e Paola Tripoli.

Chiara Bersani. Foto ©2021 LAC

Lingua Madre. Capsule per il futuro è un progetto che parte dall’assenza di un pubblico fisico per esplorare la realtà contemporanea, sperimentare nuovi linguaggi e osservare soprattutto il processo piuttosto che il prodotto della creazione. È questa un’esigenza dettata solo dal periodo storico e dall’emergenza che stiamo vivendo o c’è anche altro?

Entrambe le cose. Il vuoto che ci ha colti di sorpresa – dicono Carmelo Rifici e Paola Tripoli – qui in Svizzera a partire dall’inizio di novembre dello scorso anno, ha stimolato delle riflessioni e interrogativi.
Abbiamo incontrato una sorta di
horror vacui. Partivamo entrambi da alcune certezze: un rito di passaggio, come si può intendere il rito teatrale, non poteva essere vissuto se non attraverso una scelta etica del nostro lavoro. Abbiamo ripensato e rinnovato la nostra visione rispetto a quello che era stata fino a quel momento una visione artistica, per permetterci di superare la subordinazione a cui il digitale sembra costringerci nella vita, ogni giorno. Non è stato quindi solo un modo per raggiungere un pubblico che non poteva raggiungere il teatro, ma tentare di usare la nostra sensazione di horror vacui come un tempo aperto ad una possibilità di conoscenza, di errore e di sperimentazione. Errore e sperimentazione che hanno permesso al nostro fare di farsi e non solo di produrre.

Il progetto è un insieme di frammenti di visioni, sonorità, documentari, conferenze… La sua ragion d’essere si riassume in un “manifesto”, documento storicamente presente in ogni rivoluzione politica, artistica, intellettuale. In questo caso si riportano dieci punti salienti, ingredienti necessari per un’effettiva innovazione artistica ma che, al tempo stesso, si costruiscono su delle dicotomie che mettono in relazione vecchio e nuovo, passato e presente, memoria e digitale, tecnica e significato, realtà e immagine. C’è una componente predominante?

Una dichiarazione di intenti più che un manifesto – continuano Rifici e Tripoli – qualcosa che ci permettesse di non perderci. Una sorta di recinto etico all’interno del quale farsi domande e nel quale potersi dare risposte fallibili che, citando un passaggio della dichiarazione, ci descrivessero: «sentiamo di essere testimoni di una fine. Non sappiamo se e a cosa servirà ma sentiamo necessario che ancora qualcuno possa muoversi fuori dall’utilitarismo». Queste risposte fallibili hanno bisogno di nutrirsi di apparenti dicotomie che sono lo spazio possibile e necessario alla ricerca. Permettersi di non aderire a delle categorie (passato/presente, vecchio/nuovo) che poi diventano anche categorie economiche e di mercato, significa provare a ri-guardare e a cogliere l’oggetto. Sarebbe però disonesto non dire con estrema franchezza che alcune dicotomie – guardare una umanità onnivora in balia di meccanismi manipolatori, che subisce la dittatura dell’ovunque e sempre, che abdica ad altri la sua memoria e quindi l’identità profonda dei singoli individui e della comunità, senza proteggere i propri ricordi – dichiarano espressamente da che parte stiamo.

Esiste un filo rosso che lega gli artisti coinvolti?

Esiste chiaramente un filo, ma non è dettato propriamente dai progetti, quanto da una comune sensibilità e da una frequentazione. Gli artisti che danno voce ai percorsi di Lingua Madre, difficile citarne solo alcuni e impossibile citarli tutti, hanno sicuramente a che fare con noi, sono stati presenti nelle stagioni del LAC e del FIT, hanno condiviso con noi in passato e oggi domande, questioni. Alcuni di loro sono parte fondamentale della nostra visione, con altri, invece, è nato un dialogo. Non è stato facile mettere insieme questa squadra, che è anche cambiata molto rispetto ai pensieri iniziali. Il percorso aveva bisogno di una coerenza che scartava l’idea di una rete di collaborazioni a priori. Avevamo bisogno di capire, di intercettare, avevamo bisogno di tempo. È più onesto dire che di volta in volta abbiamo capito con chi lavorare, ma spesso ci siamo trovati anche nella bella situazione di ricevere progetti coerenti; artisti che, a loro insaputa, avevano già iniziato un percorso autonomo e che fortunatamente ci hanno chiamato e proposto una collaborazione. Ci viene anche da pensare che sono stati i tempi stessi a gettare le basi di una collaborazione. Il tempo di riflessione costretto dalla pandemia, in questo caso, ci ha aiutato a non avere fretta.  

“Analisi Logica” di Riccardo Favaro. Foto ©2021 LAC

La natura degli artisti che riflettono sul proprio presente è ambivalente: ci si affida ai classici per orientarsi sulla complessità del contemporaneo. In che modo viene dato spazio ai classici all’interno di Lingua Madre? Come si definisce questa contaminazione tra classico e contemporaneo?

Dire che esiste una netta separazione tra classico e contemporaneo, significa soprattutto pensare che un classico non possa essere un contemporaneo e che un contemporaneo non sarà classico. È un’idea datata e ideologica. Quando si cerca di lavorare fuori dalle mode e dal mercato ci si rende perfettamente conto che essere contemporanei non significa assomigliare al contemporaneo, significa invece guardare al contemporaneo, con occhio critico, con sguardo attento. Non si può tentare di leggere il tempo pensando che esista un tempo presente oggettivo, un tempo presente al presente. Leggere il tempo significa stare fuori dal tempo. Prendiamo un testo come il Prometeo di Eschilo o alcuni passi di Ci guardano Prontuario di un innocente [testo e regia di Carmelo Rifici, ndr]: è lampante che se non sapessimo che uno è un classico e un altro è contemporaneo saremmo fortemente in dubbio su una loro collocazione temporale. La stessa cosa vale per il percorso sullo studio dell’Analisi logica, scritto da Riccardo Favaro e diretto da Fabio Condemi. Il testo, nato per Lingua Madre, non esisterebbe se non fosse una risposta inequivocabile alla grammatica classica. Il documentario sui Riti di Passaggio di Angela Dematté, legato alla scomparsa dei riti nella società occidentale, parte dallo studio di Angela sui presocratici, su Eraclito, dall’ultimo lavoro di riscrittura delMacbeth di Shakespeare, dalla frequentazione di Friedrich Nietzsche e di René Girard e dai dialoghi con il fisico Franco Rasetti. L’Ipertesto di Francesca Sangalli si poggia su un romanzo noto a tutti. Si tratta soprattutto di conoscenza olistica, che si nutre di tutto, scegliendo però accuratamente il cibo e gli ingredienti di cui nutrirsi.

Come immaginate il teatro del futuro, quello dopo la pandemia? Credete che, come per ciò che si è verificato storicamente dopo delle tragedie di grande portata, nel teatro e nell’arte potranno prevalere il desiderio di evasione o di sconfinamento dal reale o si riprenderà il filo del discorso da dove eravamo rimasti? 

Non lo so – dice Rifici -, è una domanda che non può avere una risposta, dopo la peste del Trecento è successo di tutto nel campo dell’arte, dopo quella della fine del Cinquecento a Londra, ai tempi di Shakespeare, furono riaperti i teatri: tempi molto diversi dai nostri. Noi viviamo in una crisi di linguaggio diversa da quella che ha permesso a Raffaello di muoversi da Giotto. La nostra crisi è profonda. Oggi noi sappiamo che siamo stati colonizzati dalla tecnica e dalla parola tecnica. Il cavallo di Troia ha superato le mura. Ora è dentro. Che cosa faremo? Come risponderà l’economia? Che violenza si scatenerà? Oggi la cultura è ai minimi termini, il linguaggio teatrale ai margini. Questo potrebbe non essere del tutto un male, ma certo non rassicura. Ciononostante constatiamo che una generazione di giovani liberi e intelligenti è nata, sensibili ai temi dell’ecologia, della politica internazionale, alle questioni di genere. Ma tutto questo è sufficiente per pensare a una rinascita artistica? Saranno capaci di lottare contro un mondo chiuso nei tasti del telefono? Che dialogo costruiranno con la comunicazione, senza flirtare con essa? Oggi abbiamo molti strumenti a nostra disposizione, potremmo finalmente liberarci dai lacci della prepotenza del linguaggio, ma siamo troppo sedotti e ancora non sentiamo la minaccia sul nostro corpo.

Il “dopo pandemia”  – dice Tripoli – non penso sia una categoria che vale per tutti. Immagino che chi già aveva una vocazione/capacità di praticare/fruire (artisti o spettatori), filoni/generi d’evasione continuerà a farlo. Non penso che ci sarà un “travaso” in nessuna direzione. Il macro-filone di “realtà e finzione”, potrebbe essere inesauribile, mentre penso che potranno prendere importanza alcune parole-chiave (già in primo piano in Svizzera e in Europa) nell’ambito delle arti performative: uguaglianza sociale, di genere e di ruolo, processi e ambienti di lavoro sostenibili che si basano su un uso consapevole e responsabile delle risorse ecologiche, economiche e umane. Pratiche che sembrano subire un’accelerazione formidabile sotto la spinta della pandemia. Il rischio è che siano solo buone intenzioni, che si trasformino in “mode” post-pandemia. Brutti segnali in questo senso ci sono. Si vede all’orizzonte un nuovo “mondo coloniale”. Solo qualche giorno fa Boris Johnson ha dichiarato: «abbiamo vinto la battaglia contro il virus grazie alla nostra cupidigia e al capitalismo». Riuscirà l’arte a riscoprire il suo ruolo di contro-potere?

 

[Immagine di copertina: Metastasis di Gabriele Marangoni. Foto di Roberto Tonelli]



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