Cinema

Alla scoperta di Agnès Varda in 5 film

Simone Sormani

«Non ho mai voluto dire niente, volevo solo osservare le persone e condividere». Così dichiarava Agnès Varda presentando, qualche mese prima della sua scomparsa – avvenuta il 29 marzo del 2019 – il documentario autobiografico Varda by Agnès. E osservare e condividere sono i termini che, meglio di ogni altro, raccontano la sua lunghissima carriera. Osservare attraverso un obiettivo, raccogliere parole, suoni, immagini – non importa se fisse o in movimento – per farne la trama di un racconto, di una cinécriture, come lei stessa amava definire il suo metodo di lavorazione filmica, da condividere con il pubblico. 

Nel corso di mezzo secolo e più Varda  ha collezionato film, reportage fotografici -nasce infatti come fotografa – e documentari, spesso fondendone tra di loro gli elementi essenziali e mescolando generi, esperienze e modi narrativi diversi. Questo processo di ibridazione fa sì che il suo cinema, pur legato al neorealismo e alla Nouvelle vague francese, non sia sempre nettamente definibile e ne rappresenti, al tempo stesso, un tratto personale inconfondibile e innovativo fin dal lavoro di esordio, La Pointe Courte (1955), dove le vicende sentimentali di una coppia parigina si alternano al narrato, quasi documentaristico, della vita di un quartiere di pescatori di Sète. Seguiranno altri 40 titoli circa, tra film e cortometraggi, un Leone d’oro nel 1985 con Senza tetto né legge, una nuova vita artistica come realizzatrice di installazioni (dal 2003), un Oscar alla carriera nel 2017, prima regista donna a riceverlo.  

Ciononostante il suo cinema resta, forse, ancora poco conosciuto, almeno nel panorama italiano. Meritevole pertanto è la recente iniziativa della Cineteca di Bologna, Alla scoperta di Agnès Varda in 5 film. La retrospettiva, che fa parte del progetto Il Cinema Ritrovato, comprende cinque film (Cléo dalle 5 alle 7, Salut les Cubains, Daguerréotypes, Réponse de femme  e Varda by Agnès) in lingua originale e in versione restaurata con tecnologia digitale da Cinè-Tamaris. Il lavoro è edito in 2 dvd racchiusi in un box contenente, inoltre, un volumetto di approfondimenti critici, tra cui spicca un saggio inedito di Anna Masecchia, docente di Storia del Cinema dell’Università Federico II di Napoli, tra le più attente e appassionate studiose di Varda.

La selezione proposta, più che esaurire il discorso su Varda, traccia dei possibili percorsi all’interno della sua vasta filmografia. Percorsi da cui partire per scoprire le passioni, i temi, le idee che ne hanno animato il lavoro. E così Salut les Cubains (1963), reportage fotografico su Cuba realizzato all’indomani della rivoluzione castrista, ci mostra la sua abilità nel giocare con le immagini. Il montaggio, a ritmo di musiche caraibiche e con una voce narrante a commento, supera la fissità dell’immagine fotografata e ci restituisce, in modo sorprendentemente dinamico, il volto gioioso e le speranze  del popolo cubano nei primi anni del regime socialista, insieme ad uno sguardo etnografico e antropologico sulla società, gli usi e i costumi dell’isola. 

In Daguerréotipes (1975) lo stesso sguardo si sposta sulla parigina rue Daguerre. Qui, nel 14° arrondissement, la regista ha vissuto fin dal 1951, ed è in questo perimetro che ne filma, sotto forma di documentario, la vita degli abitanti: bottegai, pensionati, saltimbanchi, gente comune. Giocando con il titolo – Jacques Daguerre fu infatti un pioniere del ritratto fotografico – Varda crea dei dagherrotipi parlanti di una varia umanità immersa nella sua quotidianità, raccontandone le storie e i sentimenti attraverso gesti, volti, conversazioni. Ne viene fuori un ritratto, delicato e commovente, di quella  piccola borghesia dei mestieri che va scomparendo di fronte alle moderne trasformazioni delle metropoli occidentali. Molti degli abitanti di rue Daguerre sono immigrati o gente arrivata dalle campagne in cerca del proprio posto nel mondo e, a guardarli con gli occhi di oggi, sembrano già degli sconfitti della Storia. 

Fermare il fluire della vita in un “documentario soggettivo” sul mondo interiore dei protagonisti e, allo stesso tempo, sui grandi mutamenti sociali e culturali in atto: è questa la dimensione politica del cinema di Varda, che si arricchisce di connotati femministi come in Cléo dalle 5 alle 7 (1962).

Il film segue la cantante Cléo -interpretata da Corinne Marchand – tra le strade di Parigi in un pomeriggio d’estate, mentre è in attesa dei risultati di un esame medico e teme di avere un cancro, anche a causa dei cattivi presagi di una cartomante cui si è rivolta per conoscere il futuro. La sua vita sembra continuare a scorrere normalmente, ma in realtà, dentro di sé, Cléo è attraversata da una profonda inquietudine. Per la prima volta vede minacciato dalla morte il suo corpo giovane e piacente, fino a quel momento oggetto di ammirazione. 

Anche qui l’ossessione per gli spazi urbani fa si che la vicenda si svolga in un percorso reale, tracciabile su una vera mappa del centro di Parigi, e in un arco temporale ben definito – appunto dalle 5 alle 7 del pomeriggio – scandito da un orologio. Una dimensione oggettiva in cui Cléo vive un suo tempo soggettivo, quello della caducità umana, sospeso tra l’angoscia e l’attesa, dentro il quale a poco a poco dismette i panni della superficialità e della seduzione per acquisire, attraverso un percorso segnato dal dolore, una nuova consapevolezza di donna. Al termine del suo vagare per la città, nel Parc de Montsouris, Cléo fa conoscenza di Antoine (Antoine Bourseiller), un soldato a fine licenza in attesa di ripartire per la guerra d’Algeria. Accomunati da un destino incerto, i due si parlano rivelandosi reciprocamente la scoperta di un senso nuovo delle cose, senza sapere se un giorno potranno mai ritrovarsi.  

«Cléo dalle 5 alle 7 è opera moderna per via dell’esile trama, per come viene gestita la relazione con lo spazio urbano, per scelte decisamente innovative ma caratteristiche del suo cinema» scrive Anna Masecchia. Sicuramente è tra i suoi lavori migliori, segnato com’è da atmosfere intimistiche, tipiche della Nouvelle vague, e da una narrazione di impronta femminista. Un femminismo che Varda stessa definiva “gioioso” e che, più che parlare della condizione femminile, cerca di «scoprire la donna dall’interno, quasi fisicamente. Come reagisce a quello che la società chiede al suo corpo, come è venduta, aggredita». Quest’ultima affermazione – tratta da un’ intervista ad Alya Bouhadiba – introduce il tema del cortometraggio Reponse de femme (1975). Sette minuti per chiedere ad undici donne, appunto, Qu’est-ce qu’être femme? Cosa significa essere donna?

Nonostante il clima post-sessantottino il corto, dopo la messa in onda sulla televisione francese, scatenò un’ondata di proteste per la presenza di nudi femminili. Ancora una volta il film diventa uno strumento politico volto a scardinare degli stereotipi, rispetto al rapporto donna-corpo, talmente consolidati che oggi sembrano essere di ritorno. «Da un lato ci viene detto: “Copriti, sii pudica, sii moralmente velata, non parlare del tuo sesso, non affermare i tuoi desideri fisici. Sii madre, padrona di casa, sposa perfetta”. E dall’altro lato si chiede alla stessa donna, a quell’altra metà: “Mostra le gambe per vendere collant, mostra le spalle per vendere profumi. Mostra il corpo per vendere auto”» – continua nell’intervista. 

Nel suo ultimo lavoro, Varda by Agnès, dice:« Ero una femminista. Lo ero e lo sono ancora. E devo dire, i problemi riguardanti la libertà delle donne, in particolare, la questione del corpo, mi riguardavano enormemente». 

In questo documentario autobiografico la regista ripercorre  le tappe fondamentali della sua filmografia – oltre ai titoli già citati vanno ricordati Le Bonheur (1964), Garage Demy (1991), Mur murs (1980), Kung-fu Master (1988), Les Glaneurs et la glaneuse (2000) – e alcune importanti installazioni realizzate negli ultimi anni. Una parte del documentario è dedicata alla cinescrittura, l’insieme degli elementi fondamentali della realizzazione filmica, dall’ispirazione alla scrittura del soggetto fino al montaggio.

Tra i luoghi prescelti per questo congedo al pubblico c’è, metaforicamente, una spiaggia. Il percorso si chiude lasciando ancora aperto un vasto orizzonte davanti a noi, da esplorare per comprendere meglio il nostro presente. 



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