“Alice” dal romanzo alla scena: inconscio e contraddizione
Da sempre oggetto di nuove letture e interpretazioni, il celebre romanzo di Lewis Carroll è tornato a teatro a conclusione del percorso accademico dell’allieva regista Caterina Dazzi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.
Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie è il punto di partenza per il lavoro presentato dal 6 al 13 ottobre come saggio di diploma dell’allieva ma è anche il giusto pretesto per portare in scena sette attori (Michele Eburnea, Luigi Fedele, Diego Giangrasso, Sara Mafodda, Alberto Penna, Marco Selvatico, Mersila Sokoli) che si moltiplicano in tredici personaggi.
Così il testo, riadattamento curato da Giulia Bartolini, ha preso vita e forma sul palco del Teatro Studio Eleonora Duse attraverso una narrazione in parte conforme alla fiaba dello scrittore inglese ma mettendo l’accento su come Alice si scontri con le sue paurose meraviglie. Caterina Dazzi trasforma il paese delle meraviglie in un non luogo dai tratti assolutamente grotteschi. Tutto si svolge nello spazio antistante un armadio polifunzionale, che ben si presta a rappresentare le varie ambientazioni dello strano percorso di Alice. Lo spazio scenico diventa lo snodo amplificato di stanze e corridoi lungo i quali corre la bambina della fiaba, cercando di rincorrere il Bianconiglio sempre in ritardo. Questo essere sfuggente è causa di una grande angoscia, tipica dell’abbandono, del tormento dettato dal non riuscire ad afferrare qualcosa, dal non poter entrare nel mondo degli adulti.
Un ragazzo dai ricci biondi e spettinati interpreta Alice, benché abbigliata come una graziosa bambina; la protagonista è, dunque, un essere asessuato che però conserva i tratti di un adolescente con tutti i suoi complessi, dubbi e nevrosi. Ciascun personaggio si trova afflitto da un disagio, da una certa violenza psicologica il cui risultato non può che sfociare nella follia. “Qui siamo tutti matti!” dice lo Stregatto, a ribadire che la pazzia costituisce l’essenza dei protagonisti, la loro conditio sine qua non. Il Cappellaio Matto e la Lepre marzolina, rispettivamente interpretati da una donna e un uomo e anche loro chiaramente asessuati, sono soggetti a strani tic nervosi, rimuginano su quesiti e indovinelli totalmente illogici, senza trovare soluzione; il Brucaliffo apparentemente saggio si rivela tanto folle quanto lo Stregatto; la Regina di Cuori e il suo sposo denotano rabbia, insicurezza, frustrazione totale. Tutto diventa il contrario di tutto, ognuno incarna l’antitesi di se stesso.
“L’universo di Alice – scrive l’allieva regista tra le note di regia – è sogno e ignoto: la metamorfosi è l’unica legge, in una fantastica pantomima della possibilità La metamorfosi è principio stesso della narrazione, e se il nostro mondo è continuo e compatto, quello di Alice è discontinuo e frammentario… l’assurdo incontra l’abbandono fino all’ossessione, l’oggetto non è impenetrabile, torna, si ripete e si anima. Gravità e leggerezza coincidono, in un incessante gioco illusorio di ombre e luci”.
I personaggi ricalcano i tratti del romanzo di Carroll ma spesso li esasperano fino a cadere nel tragico. Gli stessi costumi sono fortemente caricaturali e hanno in sé l’elemento stesso del grottesco.
Alice non è più in bilico tra realtà e sogno, bensì tra realtà e incubo. Viene messa in discussione ogni sua azione. Tutto è mutevole, soggetto a continue metamorfosi, perfino la sua statura.
L’originalità del lavoro risiede poi nell’epilogo, a cominciare dall’ingiusto processo condotto dalla Regina di Cuori che vede Alice come imputata condannata alla crudele pena della decapitazione. La sua innocenza viene ribaltata, la sua colpa, aver perso se stessa. Adesso, per crescere deve assolutamente passare attraverso la violenza. Alice si fa crudele, adulta, pronta a vendicarsi del male che si è procurata da sola chiudendo la scena su un vortice di luci colorate, in fondo a quel grande armadio delle meraviglie. È finalmente cosciente della sua colpa. In effetti, cosa sarebbe successo se Alice non si fosse smarrita? Se avesse trovato la forza di non allontanarsi da casa, dalla famiglia e gli affetti, se non avesse peccato di curiosità, se non avesse mangiato biscotti proibiti, se non fosse stata così “inopportuna e invadente” da voler sfidare le leggi della logica, da desiderare di trasformarsi in qualcosa di diverso? Probabilmente non sarebbe diventata adulta, e l’avremo ricordata sempre e solo come una bambina.