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Zona Bianca #2 // “Abbiamo assunto gli spettatori come comparse per andare in scena”: intervista a Francesco Chiantese di Accademia Minima

Maria Ponticelli

Teatri e cinema sono chiusi da fine ottobre, prima che venissero imposte le attuali limitazioni che hanno voluto il Paese diviso in zone diverse in base al livello di contagio. E mentre si nota l’impegno nel dibattito attorno all’apertura di palestre, bar, ristoranti e altri luoghi che sembrerebbero meno sicuri, non si assiste ad altrettanta cura nell’affrontare il tema della riapertura di teatri e cinema, se non nella misura di una quasi utopistica “zona bianca“, per le regioni e province autonome in cui saranno presenti meno di 50 casi ogni 100.000 abitanti. “Scene Contemporanee” dedica spazio, nell’omonima rubrica, a stati d’animo, proposte e interventi di alcuni operatori culturali durante questo momento storico di grande incertezza, sentendo il loro parere.
Abbiamo sentito Francesco Chiantese, attore, autore, regista e “artigiano teatrale”, come ama definirsi, di Accademia Minima.

Francesco Chiantese. Foto di Guido Mencari

Ci sono secondo Lei ragioni altre, rispetto a quelle note, per cui il Governo ha disposto tout-court  la sospensione delle attività legate al settore delle arti e dello spettacolo?

In una prima fase ho pensato, banalmente, che il nostro mondo fosse percepito in maniera sbagliata dal ministro. Quando parla di teatro non solo riduce la nostra attività alla “spettacolazione”, non solo affronta la questione come se l’evento teatrale di riferimento fosse la prima del Teatro alla Scala, ma lo fa come se l’unica funzione del teatro fosse quella seppure importante dell’intrattenimento o della socializzazione. Tutto faceva sembrare che non ci fosse una buona conoscenza del comparto teatrale e sono arrivato anche a cercare le responsabilità indirette che potessimo avere noi teatranti.
Adesso mi appare evidente che ci siano ben altre motivazioni. Tutti gli sforzi che si stanno facendo per spostare una parte del teatro su piattaforme streaming, l’operazione di sostegno economico alla piattaforma Chili mascherata da operazione culturale, la non disponibilità a fissare delle regole per consentirci di aprire producendo e creando a partire da quelle regole (come abbiamo fatto durante l’estate in effetti), sono sintomi di un pensiero razionale che sottende a tutta questa questione. Chiaramente, quale sia questo pensiero o addirittura questo progetto, non possiamo saperlo. Possiamo giocare ad indovinarlo. Ti va? Giochiamo di fantasia. Io immagino che il ministro abbia in mente un mondo del teatro diviso in tre parti. La prima è costituita dai grandi teatri pubblici: biglietti da visita della cultura italiana, finanziati per quanto possibile dallo Stato, con una circuitazione interna fatta di scambi di produzioni tra di loro, e con una buona dose di controllo da parte della politica e di cooptazioni clientelari che non guastano mai per tenere fermi gli orientamenti politici dei territori. Siamo sul piano della pura fantasia, ovvio.  Poi abbiamo i teatri privati, costretti a produrre e ospitare un teatro che sia prodotto di consumo, ben collocato nel mercato, e che risponda alle sue leggi. Immagino poi una terza via in cui si collochi l’ossatura del teatro italiano: le piccole realtà che animano i territori e costruiscono spettatore per spettatore il proprio pubblico. Realtà per cui già oggi è quasi impossibile una circuitazione degli spettacoli, che riescono a sopravvivere tramite la costruzione di relazioni dirette coi direttori artistici, nella migliore delle ipotesi, o attraverso lo scambio dei borderò, nella peggiore. Ecco, io immagino che lo Stato scarichi il problema di queste realtà sulle piattaforme di streaming e che le si usi come strumento di cooptazione. Ho l’incubo di un teatro che debba dare peso a quanto gradimento trova sulle piattaforme in streaming; immagino un direttore artistico costretto a dire «sì, programmiamo loro, su internet hanno cinquemila follower…»: la rete come disimpegno per la funzione politica di sostegno ai piccoli teatri e alle piccole compagnie.

In riferimento al vostro territorio d’intervento, è a conoscenza di modalità alternative pensate dalle amministrazioni locali (Regione, Comune) per cercare di rispondere alla domanda di cultura, pur garantendo le principali misure volte a tutelare la salute pubblica? Cosa invece proporrebbe lei?

No, non mi risultano altre soluzioni se non qualche bando per finanziare spettacoli e formazione in streaming e qualche sostegno a chi piccole piattaforme video già le gestiva. Le proposte che potrei fare sono tante, una per ciascuna delle idee cui potrei lavorare se mi fossero date delle regole da seguire, come abbiamo dimostrato di saper fare in estate. Abbiamo utilizzato spazi non convenzionali che permettessero di ospitare spettatori rispettando le norme di sicurezza sanitaria, la replica degli spettacoli durante la giornata con un numero ristretto di spettatori; stavamo addirittura lavorando sulla serialità realizzando uno spettacolo “a puntate” di breve durata. Già in passato abbiamo realizzato performance e spettacoli per un solo spettatore o spettacoli a domicilio in cui gli spettatori sono congiunti. Io però non dovrei occuparmi di questo. Noi artigiani del teatro e della danza dovremmo essere al servizio della politica culturale di un Paese, non sostituirci a chi la politica culturale dovrebbe realizzarla. Nessuno è venuto a chiedermi di trovare insieme una soluzione, e se penso al Ministero, mi pare che questo desiderio di dialogo per trovare una soluzione non ci sia stato neppure quando le associazioni di categoria hanno fatto grandi sforzi per attivarlo. Ci diano regole e parametri, sostengano assieme a noi lo sforzo produttivo: è il nostro mestiere, in fondo.

C’è qualche forma di protesta alla quale ha aderito?  

Siamo stati in piazza, abbiamo preso parte a dibattiti, tavole rotonde, e continueremo a farlo. Abbiamo poi deciso semplicemente di ricominciare a fare teatro. Il 15 gennaio siamo andati in scena davanti a un piccolo numero di spettatori, in modo da garantire loro un distanziamento fisico “doppio” rispetto a quello che permette l’accesso ai riti religiosi nelle chiese. Mascherine, sanificazione, tamponi. Abbiamo scelto di farlo alla luce del sole, in maniera provocatoria, scritturando gli spettatori. Li abbiamo assunti come comparse e loro hanno sostenuto i costi dell’operazione. In questo modo nessuno ci può proibire di andare in scena. Del resto, è lo stesso procedimento che stanno usando alcuni programmi televisivi. Certo, non è sostenibile economicamente da una piccola realtà come la nostra e forse da nessuna realtà teatrale italiana, ma è una presa di posizione politica. Per noi e per gli spettatori (di cui abbiamo raccolto le reazioni in un brevissimo video di documentazione) è stato un momento di grande respiro che replicheremo nei prossimi tempi, salvo diverse indicazioni da parte dello Stato.

Quali invece sono state (se ve ne sono state) le forme di riorganizzazione della produzione che è riuscito a mettere in atto?

Fermare il teatro non è qualcosa che sia contemplabile, il nostro non è semplicemente un mestiere. Noi non abbiamo mai fermato la produzione, ma abbiamo dovuto smettere di pagarci il lavoro di produzione. Ci siamo interrogati a lungo su questo. In principio ci sembrava la cosa più scorretta da fare, lavorare senza pagarci, ma non è stata una scelta, piuttosto, una conseguenza. Fermare il nostro allenamento, fermare le prove, fermare la scrittura e la progettazione vuol dire tradire le nostre responsabilità rispetto alla comunità di cui il teatro è espressione. La chiamiamo tra noi “lezione del lombrico”. Il teatro, come un lombrico, metabolizza il proprio tempo per poi restituirlo al proprio tempo in forma di humus, di ambiente prolifico, utile alla riflessione, alla crescita e alla conoscenza: chi si occupa di teatro ha la responsabilità di non fermare il teatro perché questo avvenga. Nel frattempo due spettacoli e due performance hanno preso vita. Quando incontreranno il pubblico non saranno racconti a posteriori di quello che abbiamo vissuto, ma narreranno questo tempo da un punto di vista interno, “incarnato”, se posso usare questo termine. Abbiamo lavorato, ad esempio, sulla variazione di prossemica che i nostri corpi hanno inevitabilmente subito durante questi mesi, qualcosa che non si può osservare con il senno di poi, ma soltanto vivendo il nostro tempo senza fermarci. Lo abbiamo fatto per non abbandonare lo spettatore. Tra l’altro, proprio gli spettatori ci hanno sostenuto in parte attraverso delle donazioni spontanee: non è affatto vero che la chiusura dei teatri interessa esclusivamente gli addetti ai lavori, è una menzogna.

Alcuni teatri hanno proposto spettacoli in live streaming: come valuta l’iniziativa, pensa possa essere una soluzione da replicare?

Abbiamo preso l’abitudine di chiamare questa pratica “pornografia teatrale”. Può apparire provocatorio, e probabilmente potremmo usare termini più pacati, ma qualche volta è necessario non filtrare troppo quello che si prova. Il luogo del teatro è il corpo dello spettatore, è nel corpo dello spettatore, con cui si condivide tempo e spazio, che lo sforzo dell’attore prende forma, diventa vero. È lì che la biografia dell’attore incontra la biografia dello spettatore, è nel corpo dello spettatore che i segni, i sintomi, tutte le componenti del linguaggio vengono rielaborate e prendono una forma. Tutto questo è un atto intimo. La ripresa di un atto intimo e la sua fruizione, a distanza in collocazione extradiegetica, si chiama pornografia. Durante una trasmissione in streaming lo spettatore diventa fruitore, la comunicazione via video è unidirezionale. L’attore non può dialogare con lo spettatore e quel dialogo rappresenta l’unicità del teatro, perché è in quel dialogo che si stabilisce la relazione. Il teatro è artigianato delle relazioni. Del resto non può essere per caso che il teatro sia nato dalla stessa cultura che ha concepito la democrazia. Fa sorridere quando si racconta che il video possa allargare la platea di spettatori: sembra di parlare di un prodotto di consumo da collocare su un mercato più ampio. Il teatro è esperienza totalmente differente dallo streaming, come posso avvicinare le persone al teatro attraverso uno strumento che ne nega l’elemento principale? Uno spettacolo teatrale trasmesso in video è semplicemente noioso. Sicuramente va considerata l’opportunità di utilizzare il video in funzione documentaria, parlo di spettacoli di maestri del teatro che non ci sono più, di spettacoli storici fuori distribuzione, di documentari monografici su artisti teatrali: il video in questo caso può assumere la funzione di un museo. Posso entrare in un museo ed osservare un calice in cristallo, apprezzarne la fattura, studiarne lo stile, e magari immaginare quanto dev’essere stato bello berci dentro dell’ottimo vivo, ma è chiaramente un’esperienza del tutto diversa dal bersi un bicchiere di vino in compagnia. La ripresa e la distribuzione in video degli spettacoli è stata narrata come unica soluzione, ma non lo è. La politica ha spinto verso questo attraverso i finanziamenti, i più pigri hanno cercato con lo streaming di non perdere i contributi ministeriali, molti semplicemente hanno creduto non ci fossero alternative. Abbiamo sentito dichiarazioni roboanti sulle opportunità dello streaming e chi ha contestato queste affermazioni si è sentito etichettare come “stantio” o “snob”. La domanda giusta che possiamo farci non è «di cosa hanno bisogno il teatro ed i teatranti al tempo della pandemia» quanto piuttosto «di cosa ha bisogno questa comunità di cui il teatro dovrebbe essere espressione?»: la relazione, l’incontro, il dialogo quello di cui ha bisogno la comunità. Guarda caso proprio quello che è al centro del teatro. Guarda caso proprio quello che ci si ostina a negare.

Una volta terminata l’emergenza sanitaria, pensate sarà possibile trarre da questa difficile esperienza qualche elemento di positività per ripensare al teatro?

Il teatro non ha bisogno di essere ripensato, forse neppure di essere pensato, ha bisogno di essere. Chi se ne occupa dev’essere al suo servizio, semplicemente. Il teatro entra in crisi quando è trattato alla stregua di un prodotto di consumo e viene pensato in funzione della ricerca del consenso del sup pubblico. Quando viene pensato in funzione dei bandi pubblici che ne determinano modalità e tematiche, quando viene pensato in funzione dei parametri di accesso a questo o a quel finanziamento, allora il teatro muore. Muore quando ci trasformiamo in burocrati, addetti marketing, dirigenti d’azienda, quando ci distraiamo dall’essenziale, che è sempre la relazione tra attori e spettatori. Sarebbe bello se da questo periodo ne uscissimo con una nuova consapevolezza di questo. Temo però, da quel che vedo, che la deriva sarà di segno opposto.

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