Arti Performative Dialoghi

Zona Bianca #1 // Intervista a Mario Gelardi, direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità a Napoli

Maria Ponticelli

Teatri e cinema sono chiusi da fine ottobre, prima che venissero imposte le attuali limitazioni che hanno voluto il Paese diviso in zone diverse in base al livello di contagio. E mentre si nota l’impegno nel dibattito attorno all’apertura di palestre, bar, ristoranti e altri luoghi che sembrerebbero meno sicuri, non si assiste ad altrettanta cura nell’affrontare il tema della riapertura di teatri e cinema, se non nella misura di una quasi utopistica “zona bianca“, per le regioni e province autonome in cui saranno presenti meno di 50 casi ogni 100.000 abitanti. “Scene Contemporanee” dedica spazio, nell’omonima rubrica, a stati d’animo, proposte e interventi di alcuni operatori culturali durante questo momento storico di grande incertezza, sentendo il loro parere.
Partiamo da Mario Gelardi, autore, regista teatrale e direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità a Napoli.

Mario Gelardi

Ci sono secondo lei ragioni altre, rispetto a quelle note, per cui il Governo ha disposto tout-court la sospensione delle attività legate al settore delle arti e dello spettacolo?

Credo che l’emergenza Covid abbia evidenziato una questione che molti operatori teatrali già ponevano, cioè la scarsa, per non dire nulla, considerazione che il teatro e i suoi lavoratori hanno in questo Paese. Veniamo considerati lavoratori per diletto, ci viene negata la professionalità ma anche il lavoro che portiamo avanti in alcuni territori in cui lo Stato resta invisibile. Considero questa una battaglia persa, le nostre istituzioni sono sorde a qualsiasi istanza che venga dal basso.

In riferimento al vostro territorio d’intervento, è a conoscenza di modalità alternative pensate dalle amministrazioni locali (Regione, Comune) per cercare di rispondere alla domanda di cultura, pur garantendo le principali misure volte a tutelare la salute pubblica? Cosa invece proporrebbe lei?

Nel periodo di purgatorio tra i due lockdown, ci siamo attrezzati con un dispendio anche economico per riprendere le attività e portare il teatro in luoghi alternativi. Abbiamo pensato a diverse operazioni culturali che ci riportassero al piacere della parola e del racconto, grazie al sostegno del Museo Madre e successivamente del Napoli Teatro Festival Italia e del Teatro di Napoli. Queste sono istituzioni culturali, ecco, posso dire che le istituzioni culturali ci sono state vicine. Gli amministratori pubblici non conoscono o non vogliono conoscere la capacità attrattiva e di creare comunità che ha un teatro come il nostro. Io inizierei da una mappatura dei teatri, soprattutto quelli di prossimità come il nostro, e da un censimento dei lavoratori della cultura professionisti.

C’è qualche forma di protesta alla quale avete aderito?

No, lo dico chiaramente, soprattutto durante il primo lockdown non ci sembrava il caso. La nostra protesta è operare proponendo idee, dando l’occasione a molti giovani di usare il nostro teatro come una palestra delle idee. Molti di noi sono impegnati all’interno delle associazioni di categoria a cercare di individuare strade possibili. Ho visto troppi rivoluzionari farsi comprare per un pezzo di pane.

Quali invece sono state (se ve ne sono state) le forme di riorganizzazione della produzione che siete riusciti a mettere in atto?

Eravamo pronti, grazie a una bellissima accoglienza del Teatro Bellini a riproporre ben 4 nostre produzioni nella sala del Piccolo Bellini, purtroppo ci siamo dovuti fermare. Abbiamo deciso di essere in residenza permanente per immaginare il futuro, sollecitare nuove proposte e lavorare sui materiali e le idee che, per mancanza di tempo, avevamo messo da parte. Ci siamo dedicati in maniera particolare a cercare bandi e collaborazioni per finanziare nuovi progetti.

Alcuni teatri hanno proposto spettacoli in live streaming: come valutate l’iniziativa, pensate possa essere una soluzione da replicare?

Non voglio demonizzare lo streaming, ne faccio davvero un parere personale. Il teatro in streaming non mi piace, non riesco a vederlo. C’è bisogno di un lavoro tecnico e di un linguaggio per trasformare la semplice ripresa teatrale in qualcosa adatto a un nuovo media. È necessario un mutamento dei codici del teatro, affinché l’allestimento sia trasmissibile su uno schermo. Ma per fare questo ci vuole tempo, non si può fare senza una ricerca.

Una volta terminata l’emergenza sanitaria, pensate sarà possibile trarre da questa difficile esperienza qualche elemento di positività per ripensare al teatro?

I segnali che ci arrivano mettono in evidenza una grande difficoltà per i teatri sotto i cento posti e per le piccole compagnie. Rischiamo di perdere pezzi per strada. I teatri istituzionali e i grandi potentati privati hanno certamente trovato occasioni di beneficio. Il segnale positivo è stato il riappropriarsi di una comunità teatrale che si è avvicinata prima di tutto umanamente. Non possiamo considerare questo come un intervallo della nostra vita, stiamo vivendo una nuova guerra mondiale, il nostro compito sarà quello di raccontarla.

 

[Immagine di copertina: Nuovo Teatro Sanità, Napoli]

 



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