Arti Performative Focus

“Works of Worship”, I atto: la grazia paradossale dell’ira

Andrea Zangari

Molti e illustri pensatori mettono in guardia dal ritorno di uno spettro che si aggira fra le spente coscienze d’Europa. Un revenant dai vari nomi: il sacro, la religione, Dio, l’Essere. Entità maiuscole che si riprendono la scena filosofico-psicologica, lasciata vuota e buia dopo un secolo e mezzo di post-positivismo e relative cancrene tecnocratiche. Fra i più illuminati è un filosofo che, focalizzando lo sguardo sull’individuo più che sulla società, parla del ritorno di una dimensione di autodisciplina, di esercizio, di miglioramento del sé. Forme, appunto, di ascesi. Il primo atto di Works of Worship, tetralogia messa in cantiere dal regista Dante Antonelli, che ha debuttato alle Carrozzerie n.o.t di Roma, segue in certo modo la scia del mistico ritorno di fiamma, illuminandone però il versante infernale. O, meglio, l’intrico irrisolvibile di luce e ombra. In scena Claudio LarenaGiovanni Onorato, Arianna Pozzoli e Pietro Turano, quattro ragazzi in tute acetate e variopinte, sospese tra l’attualissimo rispolvero della moda anni ’80 e un’estetica manga. Sulle retrovie, un bellicoso batterista a torso nudo (Mario Russo) percuote con energia e ritmo coinvolgente il suo strumento. Sul battere delle battute, il tocco nipponico è tutt’altro che casuale: il primo dei “4 atti di adorazione” pesca sprazzi di drammaturgia dall’opera dello scrittore giapponese Yukio Mishima. Figura umbratile e fascinosa, ultra-celebrata anche in Occidente forse soprattutto per la sua fine sensazionale, che avvenne con un suicidio rituale (“seppuku”), a regola d’arte, preannunciato con arringa coram populo dal balcone di un Ministero occupato per protestare contro i patti sanciti fra Giappone e Stati Uniti nel 1970. Un fervente anti-occidentale, patriota e tradizionalista.

Viene da chiedersi come e perché ci sia finito Mishima nell’underground romano.
La sua poetica fortemente antimoderna, definita spesso nichilista (in tal chiave indagata da Marguerite Yourcenar nel celebre saggio dedicato all’autore nipponico), sfociante in una misantropia misticheggiante e celebrativa, è un buon punto di partenza per rispondere. La disciplina del samurai pervade e definisce, con gesti e parole, un registro ironico che corre lungo tutta l’opera di Dante Antonelli. A fasi di stilettanti monologhi faccia al pubblico, i bravissimi e giovani quattro attori alternano momenti corali, training in stile karateka ove fanno mostra di corpi ben torniti e pronti al sacrificio della guerra. Una guerra non certo giocata fra eserciti e nazioni, ma nello spazio conflittuale ed individualissimo della giovinezza. 

I quattro (più uno, il batterista) cercano di squassare la mancanza di senso e la disgregazione degli affetti con la grazia paradossale dell’ira; di fronte al vuoto delle loro adolescenze\gioventù, non cadono in catatonica accettazione, ma volgono il nulla in altare adorato. Inneggiano, col chiarore sprezzante e luminoso di chi non ha senso di colpa, all’orgia, all’incesto, allo squartamento (di un malcapitato animale domestico), all’isolamento. Decostruiscono i tropi regolativi di una vita “buona”. Finendo così, letteralmente e metaforicamente, cacciati di casa dai padri. Le figure genitoriali ritornano spesso come destinatari del discorso: stelle lontane, infrante e imbrattate coi liquidi stessi dei loro tradimenti (di nuovo, letterali o metaforici). È forse la loro distanza, appunto siderale, a produrre la mostrificazione dei figli, che stanno sulla scena come mostri? Ma mostri belli per natura, mostri che tracciano linee parallele, incrociate solo al di fuori della sinossi, nel loro contingente essere-corpi. Mostri desiderabili perché incondizionatamente desideranti. Si abbracciano, si palpano, si baciano includendosi di volta in volta in spezzoni di narrazione irrelati, effondendosi ma rimanendo estranei. 

Dopo la Trilogia Werner Schwab, Dante Antonelli procede sulla via di un linguaggio che lavora per accumulo di figure retoriche e gestuali, scabrose, ma mai forzate. Spezzate su una ritmica eccitante, arricchita di pesi e contrappesi, di sapiente alternanza di pieni e vuoti, passaggi dinamici e statici. Si potrebbe dire che il fine è parlare di temi dopotutto convenzionali, ma sottoposti alla fibrillazione dell’impronunciabile. L’intensa ricerca drammaturgica e il percepibile divertimento degli attori, che sembrano spesso pescare gesti e parole da un’oscura fossa autobiografica, respinge il rischio di appiattirsi su retoriche politically uncorrect, sovente inflazionate e stucchevoli quanto gli opposti moralismi di massa. Works of Worship funziona proprio perché non c’è iato tra drammaturgia e interpretazione, come quegli spettacoli che esplorando la dimensione più propriamente performativa, elettrizzano lo spettatore per la loro massa fisica. Un fronte d’urto intenso, a tratti doloroso. Di suoni, parole, danze redente dal sorriso intimo e disgraziato di una sincera ricerca poetica.

 

(Immagine di copertina: “Works of Worship”- I atto. Foto di Piero Tauro)



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