Vetrina. “Perché non sono un sasso”
Precariato esistenziale, inettitudine e ossessione per le “vite normali” degli altri: lo “Zeno del Duemila” descritto da Gianni Agostinelli nel suo romanzo d’esordio, finalista del XXVII Premio Calvino.
Matteo Gemmi ha 37 anni, è alto un metro e sessantatré e vive con la madre. È stato comunista, “come tutti”, finché non ha realizzato che “una regola fondamentale del comunismo è che non può oltrepassare mai la porta della cameretta”. Matteo quella porta la oltrepassa a 19 anni, quando si iscrive a Filosofia: “per giustificare la barbetta, due cassette di Battiato mandate a memoria e la kefiah al collo, che oltre tutto mascherava bene la forfora”. Abbandonata l’università a 31 anni, cerca lavoro “con poca convinzione e nessuna ambizione”. Timido e insicuro, si accontenterà di una breve relazione con una ragazza che non gli piace con la quale condividere momenti di silenzio e quella frustrazione, accompagnata da invidia, che gli sale quando vede i suoi coetanei con un figlio in braccio e la tv e il divano ad attenderli: “come fai a non provare invidia per una vita normale, quando invece ti tocca fare la mosca”. Così Matteo decide di spiare la gente e lo fa con metodo e costanza svegliandosi presto al mattino, mangiando in auto e annotando le sue riflessioni su dei quaderni. Proprio durante una di queste fugaci incursioni incontra il signor Alunni, un ottantenne depresso e disilluso che tenterà di aiutarlo quando la curiosità per le vite “normali” degli altri assumerà aspetti allarmanti e pericolosi, con metodi inaspettatamente non convenzionali.
In Perché non sono un sasso (Del Vecchio Editore) – finalista alla XXVII edizione del Premio Calvino – il giornalista ed ex libraio Gianni Agostinelli, al suo primo romanzo, affronta temi sicuramente attuali quali la disillusione verso qualsivoglia tipo di ideale, l’ossessione per il posto fisso come antidoto a un precariato non solo lavorativo ma anche esistenziale, la contrapposizione tra “sani e conformisti” e “pazzi e ribelli”, l’imperativo della produttività e soprattutto l’inettitudine e la solitudine dei “vinti” degli anni Duemila.
Tuttavia, complice lo stile adottato – un monologo insistito in prima persona puntellato da digressioni e dall’uso volutamente sgrammaticato della lingua – dalle pagine non emerge alcuno spessore: l’ironia è piatta, le osservazioni banali e persino i momenti di maggiore drammaticità non riescono a far decollare la narrazione. Il lettore prova fatica nell’empatizzare con Matteo, non riuscendo a decifrare a pieno le sue reali emozioni: la sua, ad esempio, è un’invidia autentica o è fiero della sua – ebete e pericolosa – diversità? Al di là di un certo fastidio, forse proprio in questa ambiguità risiede la forza del libro, soffocato da uno stile esibito senza la giusta padronanza.
- Genere: Romanzo