Vetrina. “Nessuno è indispensabile”
Il secondo romanzo di Peppe Fiore, capace di farci cambiare idea sul concetto di “posto fisso”
La Montefoschi è un’azienda modello, una di quelle in cui i lavoratori godono di tutte le tutele, in cui i conti sono in ordine e le scolaresche vanno in visita. Una di quelle aziende che producono qualcosa, latte e derivati, con una grande mucca in vetroresina all’ingresso, una storia di successo italiana, prossima alla quotazione in borsa.
Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore apre le porte su un modello di organizzazione aziendale in cui gli umani si muovono senza troppi guizzi, tra le linee di pianificazione, i conti, le scadenze, la pausa pranzo in mensa, «due vasche di minestre di due diverse fosforescenze, spezzatino di sughero, laterizi di tiramisù», le superficiali chiacchiere tra colleghi, perché si sa, «i colleghi sono persone fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane».
Il protagonista è Michele Gervasini. Il grigio chiaro della sua vita monotona contraddice la teoria dei contrari di Eraclito: esiste senza che vi sia, altrove, il suo opposto. L’esistenza di Gervasini, sembra non avere altre note oltre a un lungo mi basso, anche quando cerca una donna su internet si fa attrarre da concentrati di medietà rassicuranti come un’utilitaria Fiat.
Il suicidio in azienda di un’impiegata, Lucia Frangipani, rompe la routine. Il funerale, triste e piatto, con i colleghi e quattro parenti, denuncia una solitudine generalizzata, che sembra permeare a fondo l’ambiente della periferia industriale dell’Agro Pontino. Quel suicidio si rivela ben presto il primo anello di una catena. Uno dopo l’altro i colleghi la fanno finita, senza motivi apparenti, tutti all’interno dell’edificio.
Ci si comincia a incupire, e a detestare benevolmente Peppe Fiore per averci condotto in azienda, e a interrogarsi: è l’ambiente a fare tristi le persone o viceversa?
Si attende una spiegazione che dia senso alle morti, per poi tristemente dedurre che la causa è la (non) vita tranquilla a cui ci insegnano ad aspirare. L’azienda desiderabile del primo capitolo comincia ad accartocciarsi su se stessa e a fagocitare le esistenze altrui. Non può essere altrimenti. Vetro e cemento, neon, moquette beige, ossa, sangue, sudore, scrivanie in mezzo a una distesa infame, «un unico sconfinato ematoma industriale», batterie di capannoni dietro i quali ogni giorno sorge un sole che, mortificato, illumina tralicci, siti di stoccaggio, campi avvelenati, concessionarie d’auto: la botta di vita della domenica.
Tutto questo è dipinto con cinismo e triste sincerità da Peppe Fiore. La sua macabra ironia si mimetizza tra le righe, con uno stile che sa essere lineare, senza banalità, sapientemente controllato e anche sboccato quando serve. Peppe Fiore è capace di far riflettere su quanto possa essere poco desiderabile l’ordinaria e ordinata esistenza determinata dal posto fisso. E, da un punto di vista precario, lo ringraziamo.
- Genere: Narrativa italiana