Vetrina. “L’Amalassunta”
Il libro di Pier Franco Brandimarte vincitore del Premio Calvino 2014: una recherche poetica e ben strutturata a metà tra il romanzo, il saggio e l’inchiesta sulle tracce del pittore Osvaldo Licini.
“Ecco lo vedo. Pulisce il pennello alla pezza, soffia sul foglio, riavvita l’inchiostro di china”. Inizia così L’Amalassunta (Giunti), l’opera con cui Pier Franco Brandimarte si è aggiudicato il prestigioso Premio Calvino 2014 riservato agli esordienti.
Fin dalle prime righe il ventottenne scrittore abruzzese, attraverso il suo alter ego Antonio, ci conduce con sensibilità e trasporto sulle tracce di Osvaldo Licini, pittore “errante, erotico, eretico” come egli stesso amava definirsi, tra i primi in Italia ad avvicinarsi alla pittura astrattista.
Da quando, quasi per caso, Antonio si imbatte per la prima volta nei quadri dell’artista marchigiano, qualcosa gli scatta dentro al punto da lasciare la fidanzata Nina – che pure tornerà più volte nel corso del romanzo – e la città di Torino per stabilirsi nella barberia appartenuta al nonno – poco distante da quella Montevidone dove, quasi un secolo prima, visse e operò Licini – per dedicarsi con passione quasi maniacale alla collezione di ogni traccia, diretta e indiretta, lasciata dall’artista ricercando tra le cuciture di quelle testimonianze anche un senso alla sua vita.
Ecco dunque che le fotografie e i quadri del pittore – tra cui spiccano le serie dedicate alla luna, Amalassunta appunto – si animano nelle ricostruzioni immaginate dall’autore, dagli anni spensierati del giovane Licini a Bologna con gli amici Morandi e Vespignani alla Grande Guerra che lo rese per sempre claudicante, dall’incontro con Modigliani durante il lungo soggiorno parigino al ritorno in Paese con l’amata pittrice svedese Nanny Hellströmm, moglie e compagna di una vita, fino al 1958, anno della (tardiva) consacrazione – con la vittoria del Gran Premio Internazionale della Biennale di Venezia per la pittura – ricevuta pochi mesi prima di morire.
Frammentario e poetico, il romanzo-saggio-inchiesta realizzato da Brandimarte si contraddistingue infine per la patina di indeterminatezza – da molti definita leopardiana – che avvolge l’intera narrazione e che trova in Licini un paradossale interprete: “in ogni modo, mi dicevo, la mia era voglia d’indeterminato, d’inconcluso, voglia di giocare eternamente coi possibili, di evadere la forma. Ciò che pure, nella sua opera sfuggente, Licini era riuscito a rendere tangibile e concreto. Era questo il segreto del suo segno: un segno per ciò che non si vede. Un paradosso”. Al lettore non resta dunque che muoversi tra fantasmi di segni, entusiasmandosi e perdendosi in riflessi estranei per -altro paradosso – ritrovare se stesso.