Libri

Vetrina. “Joyland”

Francesca Fichera

Gli anni passano anche per Stephen King, incontrastato master of horror contemporaneo, e Joyland sembra stare lì a volercelo dire. 

Dalla spiaggia di Joyland spira un vento nostalgico. Gli anni passano anche per Stephen King, incontrastato master of horror contemporaneo, e la sua ultima fatica letteraria sembra stare lì a volercelo dire.

Non è trascorso molto tempo dall’uscita del romanzo “fantastorico” 22/11/63, e già siamo di nuovo catapultati indietro, sul finire della primavera sessantottina e a cavallo dell’onda beat, alle porte di un decennio solcato da paure e stravolgimenti. È il 1973, un anno decisivo anche e soprattutto nella vita di Devin Jones, l’io che narra il passato – il suo passato – vissuto fra le attrazioni di  Joyland. Orfano di madre e con un taglio fresco – il primo e il più profondo – al cuore, Jones ha un’esistenza da portare avanti, a cominciare dagli studi che non riesce a pagarsi; così decide di farsi assumere in un parco divertimenti del North Carolina. Qui, fra prove iniziatiche di resistenza, inaccessibili codici linguistici in slang e veri e propri fenomeni da baraccone, viene a conoscenza di un terribile episodio che ha segnato indelebilmente la storia del parco: l’omicidio di Linda Gray, giovanissima visitatrice trovata morta nel tunnel dell’orrore, il cui caso non è mai stato risolto e il cui fantasma sembra che ancora vaghi tra gli scheletri di cartapesta del castello.

Spinto dalla voglia di indagare sul mistero, a sua volta motivata da un ossessivo desiderio di combattere quel tempo che su tutto passa rapido fuorché sulle ferite, Jones prolunga la sua permanenza a Joyland, rimanendo invischiato in una trama più complessa di quanto potesse immaginare, ma dalla facile – per quanto dolorosa – soluzione.

Non è la prima volta che King si diletta nella scrittura di una ‘storia di transizione’, nel racconto di una crisi: già ne Il miglio verde, poi in Cuori in Atlantide e infine in Duma Key, i suoi protagonisti hanno sempre avuto modo di ispirare riflessioni – il più delle volte struggenti – sull’ironia crudele della vita, sulla maniera tremenda e silenziosa con cui essa sancisce i distacchi e gli addii, sui perché di certi incontri che vengono svelati solo poi. Ma l’intensità dei libri precedenti viene qui sacrificata a una maturità amarissima, resa concreta da un piglio narrativo pacato, lineare e sintetico, che utilizza l’espediente del “whodunit” (il giallo deduttivo) come tramite (e  pretesto) per svolgere un racconto soltanto all’apparenza secondario: una storia di umana e anziana rassegnazione di fronte a ciò che l’esistenza sceglie al posto nostro. E tutto passa come un gioco, veloce e scorrevole come un giro di giostra, ma da cui si esce, certamente, più commossi che sorridenti, frastornati e, forse, anche con un vago senso d’incompletezza. 


  • Genere: Thriller
  • Altro: Traduzione di G. Arduino

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