Libri

Vetrina. “Femmine un giorno”

Francesca Fichera

Elena Commessatti scrive un giallo sui generis dove la finzione fa da tramite alla denuncia di un dramma reale.

La Udine vista da Elena Commessatti ha il cielo “blu fluo”; familiare a chi ci vive o ci è stato. È fatta di dettagli, di nomi e di cognomi, che si svelano e concedono solo a chi guarda dall’interno. A chi è dentro ma con distacco, come tutti i bravi narratori. E questo è e riesce ad essere la Commessatti, attraverso il personaggio (e forse anche il ruolo) di Agata Est, voce fuori dal coro udinese che, con i suoi bisbigli, riesce a diffondere l’inascoltato, a rendere percepibile lo strazio di tante piccole tragedie messe a tacere dalla terra; la sua.

È il primo pregio di quel libro raro che è Femmine un giorno: che non strilla, non ricerca effetti, non sente il bisogno di sovraesporsi per esporsi. Che non deve l’esclusiva raffinatezza della sua scrittura all’astuzia né all’esibizionismo, ma a un evidente e prolungato labor limae meritevole d’aver affinato innanzitutto la punta della penna di chi ha scritto, istillando nel suo inchiostro maturità e profondità, originalità ed efficacia.

Il giallo sui generis della Commessatti ha tutto questo e anche di più: in esso risiede una forza di matrice antica, classica, grazie alla quale la finzione invera il reale, in quanto tramite che ne desume e sottolinea i nessi trasformandone il senso in cosa tangibile. Tutto è realmente esistente, in Femmine un giorno, tranne i suoi attanti; i quali, però, avrebbero buone probabilità di essere per davvero; a cominciare da Agata Est.

Così, fra un ritaglio di giornale e la descrizione accurata di un locale storico del centro, quei cosiddetti “innesti” che presentano le vittime (future nel libro, passate nel tempo), c’è la risoluzione di un’identità, singola e femminile, che rivendica quella di tutte le altre sue compagne: l’identità collettiva delle “femmine un giorno/e madri per sempre” cantate da De André. 

La Commessatti ha fatto propri quei versi e il loro tuorlo: ha cantato, anche lei, la “rabbia impellente della dignità” – come ha scritto Pino Roveredo in prefazione – restituendo memoria alle sofferenze ignorate. Denunciando con la razionalità di un discorso pacato – ma non per questo privo di guizzi – ciò che i silenzi ostinati e le urlanti richieste d’attenzione hanno sepolto. E puntando il dito contro, finalmente, a qualcosa e a qualcuno: come la mancanza di solidarietà e chi ne è responsabile.

Al di là d’ogni genere, perché la civiltà e l’umanità non ne hanno mai uno solo cui attribuire colpe o meriti.


  • Genere: Romanzo; giallo

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