Vetrina. “Expo 58”
Un modesto romanzo di Jonathan Coe, percorso da un latente senso d’inquietudine e da ovattate atmosfere spy.
Bruxelles, anno 1958: il mondo scende a patti in una fiera, o almeno così sembra. Con la pelle ancora percorsa dalle insanabili cicatrici lasciate dai due grandi conflitti, ciò che più preme alle maggiori potenze mondiali è il venire in pace le une con le altre, in un’esposizione internazionale che sa molto di teatrino. E la scrittura didascalica, e a tratti manovellosa, di Jonathan Coe, in Expo 58, appare funzionale al concetto; fatta apposta per trasmetterlo.
Ciò che infatti il modesto romanzo del narratore inglese inchioda e condanna, con una pacatezza che appartiene al lato non in ombra dello stereotipo british, è l’ipocrisia: non quella protagonista delle basse generalizzazioni da social, bensì “la madre” Ipocrisia, con la maiuscola, meccanismo principe del potere e dei suoi innumerevoli ‘dietro le quinte’ che consente ai potenti stessi di avvicendarsi in un ciclo infinito di opportunità e opportunismi. E di alternanze artificiali e poco eque.
Ma alla rappresentazione dell’idea di falsità suprema non serve soltanto la dimensione (principale) dell’intrigo internazionale in cui incappa lo sfortunato e ingenuo protagonista Thomas Foley, bensì anche il crollo (secondario) delle sue ‘quinte’ personali, la bugia che si fa strada nella sfera privata dell’individuo costringendolo a rivedere i propri punti di riferimento: «Stava vivendo in un mondo fatto interamente di simulacri. E più ci pensava, più ogni cosa intorno a lui iniziava ad apparire spettrale e instabile. Questa gente che aspettava di essere servita e sedeva ai tavoli era reale o finta? Ciascuno di loro era quel che sembrava?”
Il testo di Coe si butta in avanti senza particolari guizzi, dando vita a uno stupore composto e intermittente ben lungi dal far urlare al capolavoro della letteratura contemporanea. Eppure, in questa profondità che vuole mantenersi vicina alla superficie va riscontrata – e si conserva – una certa eleganza, una discrezione e un pudore dello scrivere di cui, soprattutto in tempi recenti, s’avverte la mancanza. E che, sebbene senza strafare, intrattiene fino in fondo. Fino all’ultima pagina, dove tutto non diventa chiaro, ma cristallino, e l’inquietudine d’improvviso non ha più alcun velo.
- Genere: Romanzo; spionaggio
- Altro: Traduzione di Delfina Vezzoli