Vetrina. “Bestiario di vite disgraziate”
Il nuovo libro dell’esordiente Ambra Porcedda è una colorita raccolta di racconti tragicomici.
Dopo il breve ma eccellente esordio di Imeacht Brónach, la giovane autrice sarda Ambra Porcedda torna il libreria, sempre grazie alla bébert, con Bestiario di vite disgraziate, colorita raccolta di racconti dai personaggi a metà fra il comico e il tragico.
Miserevoli erano le vicende e il mood del primo libro, e altrettanto può dirsi di protagonisti e spalle del Bestiario, un libro che scorre, intontisce e va giù come un bicchiere di qualcosa di forte. Ambra dimostra una seconda volta, dopo Imeacht Brónach, di saper gestire tanto la prima quanto la terza persona: un po’ si mimetizza e un po’ sembra che stia lì a parlare di sé – e forse lo fa, a suo modo – e così riesce a mettere in scena l’assurdo, i paradossi del reale, saltando da una situazione all’altra con naturalezza e tanta ironia amara.
Anche il registro stilistico si riconferma: sboccato, caustico, ma non per forzatura o perché fa figo. È una questione di sfumature che lo spiega, ma si avverte con chiarezza che l’autrice parla e scrive in quel modo perché fa parte di lei, della sua personalità. E di sicuro il Bestiario di vite disgraziate, con l’accompagnamento (sporadico) dei disegni crudeli e surreali di Ciro Fanelli, di personalità ne ha tanta.
Le storie al suo interno rimangono impresse tutte, dalla prima all’ultima: più incerte quando hanno da trasporre nostalgie e sentimenti morbidi (III B), sugli spigoli della cattiveria e dello squallore di cui sono capaci gli uomini non mostrano la minima esitazione, quasi a costo di diventare insostenibili – è il caso soprattutto di Alla presenza dei genitori e dell’avvocato difensore, confessione di un reato tratta da un mondo torbido la cui rappresentazione, sul finire, trabocca letteralmente di letame.
La vetta, però, il Bestiario la raggiunge quando mette in scena la solitudine, a ennesima riprova del fatto che la specialità di Ambra Porcedda, dal suo esordio in poi, e per quanto in più di un punto dei suoi libri sia esilarante come pochi sanno essere, è la tristezza. Il suo fiume incessante di parole ripiega in un anfratto di ombre e profondità dove la mente può riposare e ristabilire i nessi. E sembra quasi, in Phun e ancora di più ne L’amore cantato male (probabilmente il migliore di tutta la raccolta), di guardare attraverso gli abitacoli chiusi delle auto con un solo passeggero a bordo, di schiacciare il naso dietro le finestre dei monolocali.
Si ritorna piacevolmente alle origini, pregustando il clima che potrebbe rendere il prossimo libro della scrittrice sarda ancora più gustoso di quest’ultimo, il quale si legge – e va letto – tutto d’un fiato.
- Genere: Racconti
- Altro: Illustrazioni di Ciro Fanelli.