Cinema Il cine-occhio

Va’ e vedi

Stefano Valva

Va’ e vedi è una frase che implica due cose, una conseguenza dell’altra: curiosità e conoscenza. Non a caso è una citazione dell’Apocalisse di San Giovanni, la quale è intesa nel testo sacro non come (o almeno non solo) distruzione su vasta scala, bensì come salvezza, come visione di un mondo inedito e inimmaginabile, che scatena, appunto, curiosità e conoscenza, ossia in tal caso la comprensione divina e celeste.

In Va’ e vedi (Idi I smotri) di Elem Klimov c’è più distruzione che salvezza, più conoscenza della morte che della vita. Qui il significato di apocalisse è vicino filosoficamente a come gran parte del cinema ha utilizzato nell’immaginario audiovisivo tale pensiero religioso. Lo si nota fin dall’inizio dell’opera, dato che essa è l’ennesimo aneddoto drammatico della seconda guerra mondiale, quindi a maggior ragione come un regista potrebbe intendere la salvezza apocalittica del corpo e dell’anima, in un tema che storiograficamente è collegabile a morte e disperazione?

La pellicola è del 1985, sfortunatamente ancora non è distribuita in Italia, nonostante nel 2017 abbia vinto il premio come “miglior film restaurato”, nella sezione Venezia Classici della Biennale. Ambientato in Bielorussia – uno dei contesti apparentemente marginali del fronte guerresco, e per ciò ingiustamente dimenticato – il protagonista è un bambino di nome Florya, il quale si ritrova catapultato sul fronte guerresco per fronteggiare i Nazisti, che nel 1943 stanno intraprendendo la campagna sulla sponda orientale. Egli è costretto ad abbandonare il suo villaggio – e la famiglia, ossia madre e due sorelline – per entrare in un limbo di atroce violenza, che solitamente è alienante per tutti, figuriamoci per un ragazzino.

L’odissea di Florya, comincia nel momento in cui il plotone decide di non portarlo con sé al fronte, per un motivo ironico ed originale, che qui è ingiusto esplicitare (il film, seppur non distribuito, è disponibile in digitale su Youtube), e tale momento è il vero esordio dell’avventura nelle lande desolate e nelle foreste della Bielorussia, per un’odissea non come quella di Ulisse, avventurosa ed affascinante, alla ricerca del percorso per tornare a casa, bensì un viaggio dell’orrore, ove l’unica prerogativa è la sopravvivenza.

Le scelte di regia di Klimov sono il fiore all’occhiello del film: la camera segue incessantemente i personaggi, in un luogo ove si è in perenne movimento, senza soffermarsi su estetismi o virtuosismi in panoramica; lo spettatore deve essere attirato dalle vicende del plot e dalla condizione psicologica dei personaggi dell’epoca, mai dal semplice strutturalismo delle tecniche di regia (o quasi). Le inquadrature vengono poste spesso da un punto di vista ribassato, perché lo spettatore deve sentirsi completamente coinvolto nella realtà storica. La fotografia condiziona la visione, perché prima le luci naturali ed abbaglianti dell’alba, poi la fitta nebbia delle foreste, creano il dubbio, lo spaesamento, l’incertezza sul dove trovare vie di fuga, oltre ad introdurre la paranoia (per la quale diviene cruciale anche l’inquadratura regolare dell’aereo di ricognizione tedesco – che sorvola il territorio – utilizzato come vero e proprio archetipo, similmente a come avviene in un’opera celebre di Martin Scorsese ossia Quei Bravi Ragazzi, quando Henry Hill viene seguito continuamente dall’elicottero dell’FBI). Nelle appena citate tecniche di inquadratura, che nelle sequenze sono poliedriche e diversificate, perché ogni scena, ogni momento, ha una peculiarità che ne amplifica l’artisticità e il pathos: dalle soggettive, ai long-take, dai primissimi piani, alle carrellate durante le fughe, fino al montaggio sonoro, sempre corrisposto a quello che sente il protagonista intorno a sé; un’imponenza tecnica che sorprende per la sua ricercata complessità, e che la si ritrova solitamente in rari prodotti cinematografici. Infine, nella gestione della rappresentazione del villain – ossia i nazisti – i quali nella prima parte sono figure misteriose (un po’ come accade in Dunkirk di Christopher Nolan); solo nella seconda metà divengono anch’essi presenti in maniera rilevante sullo spazio filmico.

Va’ e vedi (attraverso la scenografia, la complessità tecnica, e la componente emozionale/emotiva delle dinamiche che si scatenano intorno ai protagonisti) diviene una delle opere più singolari sugli orrori del nazismo, sull’immensa portata tragica della seconda guerra mondiale, e sulla rappresentazione di molteplici temi astratti e concreti allo stesso tempo: l’odio, l’amore, il disprezzo, la violenza, la compassione, la pietà, l’amicizia. Tali sentimenti si scontrano, si intrecciano e vengono inseriti senza filtri e senza sfumature moralistiche. Un’opera che è anche la miglior raffigurazione del rapporto funesto tra due ideologie estreme: il nazismo e il comunismo. La semplicità dell’odio tra le comunità è disarmante, e non conosce saturazione nei metodi applicativi.

Quando Klimov immerge lo spettatore all’interno del territorio bielorusso, gli fa notare da subito che quello è un ambiente triste, ove la popolazione in primis deve patire e patirà nel dopoguerra la dittatura comunista dell’URSS (solo nel 1990 otterrà l’indipendenza), e in secondo luogo deve subire la momentanea ma estenuante rappresaglia del nemico, il quale incendia ogni cosa e uccide ogni persona. Ciò viene eseguito con una naturalezza agghiacciante, come se tutto e tutti fossero insignificanti.

Tale semplicità viene tratteggiata attraverso la visione della massa, che è mandata in schiavitù e/o a morte. Il regista non dimentica i canoni storici del cinema sovietico, dai quali riprende – seppur con finalità differenti – la riproduzione della massa, del caos e della moltitudine che fugge o che si amalgama così tanto da trasmettere un senso di claustrofobia. Stavolta, la fuga della massa non è come nei film di Ejzenstejn, di Dovzenko, di Pudovkin, ossia una corsa verso la rivoluzione, la libertà o per i diritti dei lavoratori, è invece una letterale spinta dentro al macello da parte dei tedeschi – non accelerata come nel montaggio dei formalisti – che porta la popolazione contadina verso la fine, verso la morte, verso le sofferenze più atroci, attraverso un gioco sadico architettato ad hoc dagli stessi persecutori.

Divengono, altresì, magistrali e coinvolgenti anche i mutamenti mnemonici di Florya, il quale nell’incipit è un bambino curioso, quasi desideroso di combattere per la propria terra, ignaro dei drammi della guerra. Egli nella prima parte si sente stimolato, positivista. Poi – attraverso un lungo cammino tra i villaggi, le paludi, i campi e i boschi – la sua psiche si modifica: cresce la rabbia e di conseguenza nasce l’odio e la sete di vendetta, due sentimenti che nessun bambino dovrebbe provare. La rabbia e l’odio lo consumano fino a renderlo pienamente instabile.

Eppure, anche quei sentimenti negativi debbono avere un limite, deve arrivare un momento nel quale ci si sente appagati di odio, di violenza, di rabbia. Anche se Florya nota che tale confine per i nazisti sembra non esistere – essi infatti non risultano mai paghi di morte e di distruzione dell’altro, del nemico, di chiunque non accetti e non faccia parte della loro logica, della loro fisiognomica e di una precisa percezione della società. E se la seconda guerra mondiale – attraverso principalmente le azioni atroci dell’Asse – contagiava l’odio e poteva inglobarlo definitivamente su scala universale, quindi anche in bambini come Florya; nonostante ciò, quest’ultimi si sentono diversi, arrivano alla consapevolezza che l’odio ha un limite che non va mai oltrepassato, che è una conseguenza, non una finalità da perseguire, che non va annientato con un disprezzo altrettanto estremo, ma con qualcosa di più sano, qualcosa che in quel momento renda coscienziose le giovani generazioni e gli dica che quell’odio e quella crudeltà non sono invincibili. Se devono combattere, è per incorporare (stavolta) nell’umanità un solo sentimento, il più importante che esista!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


  • Diretto da: Elem Klimov
  • Scritto da: Elem Klimov, Ales Adamovich
  • Tratto da: "I Am From The Fiery Village" di Ales Adamovich, Janka Bryl, Vladimir Kolesnik
  • Protagonisti: Aleksei Kravchenko, Olga Mironova
  • Musiche di: O. Yanchenko
  • Fotografia di: Aleksei Rodionov
  • Montato da: Valeriya Belova
  • Distribuito da: Sovexportfilm (USA)
  • Casa di Produzione: Mosfilm, Belarusfilm
  • Data di uscita: 07/1985 (Russia)
  • Durata: 142 minuti
  • Paese: Unione Sovietica
  • Lingua: Bielorusso, Russo, Tedesco

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