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#UnconventionalDate: “Io sugno”. Davide Paciolla si racconta nel suo “sogno lucido” dietro le quinte dell’Unconventional Date

Roberta Leo

L’attore napoletano Davide Paciolla parla di sogni e realtà in un unico flusso di coscienza e di pensiero nel suo spettacolo Io sugno, terzo appuntamento della stagione teatrale preserale Unconventional Date, in scena questa sera alle 19.30 al Club 55 di Roma. Lo spettacolo, oltre che un’ottima occasione per gustare l’aperitivo nel quartiere Pigneto, punto di riferimento della movida romana, si presenta come un gioco di parole che si articolano su una partitura testuale musicale e raffinata. Oggetto del testo, carico di spunti autobiografici, è il sogno. E quello di Paciolla è un “sogno lucido”, concreto, frutto di un’immaginazione ludica, alleggerito da letture psicologico-filosofiche, che piuttosto mira a coltivare una ricerca dell’Io rapportandolo al mondo esterno e alla collettività. Intercetta senza limiti varie scelte e alternative che connettono in un unico essere il sogno e il reale. Ne parliamo con l’autore e interprete, premiato alla scorsa edizione del festival conCorto, e con alle spalle anche un Premio Hystrio alla Vocazione (2013).

Davide Paciolla al Club55. Foto di Camilla Mazza

Il titolo del tuo spettacolo parla chiaro: Io sugno. Che cos’è per te il sogno e cosa sogni in questo momento?

Distaccandomi dai significati e dalle interpretazioni psicologiche per me il sogno è qualcosa di molto concreto. È un tendere verso qualcosa. Forse per me sognare è sinonimo di immaginare. Difficilmente ricordo i sogni che ho fatto durante la notte. Invece sogno moltissimo ad occhi aperti. Ed è bellissimo, perché posso essere chi voglio, quello che voglio. Un giorno sono un assassino, un altro un innamorato, e così via. E il lavoro di attore mi permette tutto ciò. Un gioco serio in cui posso alimentare e fare vivere il bambino interiore. Come diceva un mio insegnante “Fare l’attore permette di vivere molte vite e di consumare meno la propria. Per questo si rimane giovani”.
Al momento il mio sogno è quello di tendere verso la serenità, l’armonia, sia interiore che verso il mondo esterno. Fare pace con tutti i traumi, le ferite, gli irrisolti, le frustrazioni, le ansie. Potermi guardare da fuori e ridere di me stesso. Un altro sogno più concreto e meno new age, invece, è di poter continuare a fare l’attore per tutta la vita.

Il sogno rivela quasi sempre la natura del nostro inconscio. Che legame sussiste tra realtà e fantasia, razionale e irrazionale e in che modo traduci questo binomio nel tuo spettacolo?

Sono partito dall’idea del sogno lucido, ossia la capacità di controllare l’andamento dello stesso. In pratica, con un po’ di allenamento, si può decidere cosa sognare. Essere attivi durante il sogno. Per esempio, posso trovarmi davanti ad una porta chiusa e decidere di aprirla. Stupefacente, ho pensato. Quindi dal cogito ergo sum, sono passato al sogno ergo sum. Se potevo decidere cosa sognare potevo anche sognare di decidere, e così via. I limiti erano saltati. La realtà coincideva con la fantasia, il razionale e irrazionale si confondevano. Il tutto è stato tradotto con un flusso di coscienza, in cui i pensieri corrono e si rincorrono, in un nonsense che alla fine un senso preciso ce l’ha. Che è poi il nostro modo di pensare, speculativo. Spesso passiamo da un discorso all’altro senza logica apparente, per poi chiederci “Ma come siamo finiti a parlare di questo?”. Spingo tutto fino al paradosso, al parossismo, gioco con le parole, i sogni e i desideri. Confondo e mi confondo. Ecco, in questo spettacolo si vedono i pensieri, e i pensieri hanno vita propria.

Io sugno racconta di un attore che sogna di recitare, ma che, inconsapevolmente, ogni giorno, lo fa nella realtà. C’è dell’autobiografico in questo o è una situazione sempre più diffusa nei nostri giorni data l’insoddisfazione di non riuscire a fare ciò che si vuole a certi livelli, come se non ci si volesse mai accontentare di ciò che si ha?

Non parlerei di insoddisfazione o di non sapersi accontentare, ma del senso di profonda inadeguatezza di non riuscire a trovare un proprio ruolo nella società e di conseguenza risultare inconcludenti. Il protagonista sogna di recitare, ma non si rende conto di farlo nella realtà perché, in questo testo specifico, sogno e realtà coincidono. È tutto nella sua testa. Lui lui sogna una realtà alternativa; ma è veramente possibile un’alternativa? Per quanto riguarda l’autobiografismo, è inevitabile che ci sia. Molto spesso – quasi sempre direi – un autore parte dal proprio vissuto, lo mastica, lo rimastica per poi adattarlo restituendo altro. Mi sono impegnato a rendere universale il particolare dell’aneddoto personale, in modo che chiunque potesse identificarsi. Ho anche rubato dalle vite di amici, parenti, conoscenti, sconosciuti. Ho inventato. Ho detto la verità. Quando a fine spettacolo mi chiedono se ciò che ho scritto sia vero, per me è una grande soddisfazione: sono riuscito ad insinuare il dubbio.

“Io sugno”. Foto di Matteo Nardone

Il testo è scritto come una partitura musicale e, inoltre, tu dai grande importanza ai dialetti, da sempre visti come preziosi contenitori di musicalità. Quali sono gli strumenti fonetici di cui ti sei servito nell’operazione drammaturgica?

Volendo fare una battuta direi il vocabolario, gli studi classici, l’orecchio, la musica e La Settimana Enigmistica: il vocabolario mi ha dato il significato e tutte le declinazioni di una parola (lo spunto da cui iniziare); gli studi classici mi hanno dato la capacità di analisi di un testo, della traduzione, della tradizione, le figure retoriche e il rigore metrico, anche se è tutto scritto in versi sciolti; l’orecchio mi ha suggerito l’efficacia di come dire le cose (la parola teatrale è fatta per essere ascoltata); la musica mi ha dato il ritmo, le pause, il forte, il piano, l’accelerando, il crescendo, il diminuendo; la settimana enigmistica ha spostato il senso delle parole, mi ha suggerito altri significati e significanti, mi ha insegnato a giocare con le parole.

Nello spettacolo è predominante il tema pirandelliano della maschera. Alla luce di ciò come intendi il rapporto tra l’Io e la collettività?

Nel testo c’ è un passaggio che recita “Sono come tu mi vuoi, sono come voi mi volete. Sono come, sono come. Ma non potevo essere? Essere e basta? Senza come?!” Credo che questo riassuma al meglio il senso del rapporto tra l’Io e Collettività. Quante volte abbiamo sentito la frase “Siamo nani sulle spalle di giganti”. Un continuo paragone con coloro che ci hanno preceduto, genitori, insegnanti, filosofi, maestri. Tutti migliori di noi. A tutto questo si aggiunge la cultura e l’educazione prima familiare e poi sociale. Mi devo laureare, devo trovare un bel lavoro, mi devo sposare, devo avere dei figli, devo fare le vacanze, devo comprare casa, la macchina nuova. Quante delle nostre scelte sono dovute alla nostra volontà, quante sono dettate dal dovere? Per potere essere accettati, per avere un ruolo, perché così si fa, e così s’è fatto sempre. Si potrebbe dire che questo testo sia una ricerca dell’identità. Una ricerca dell’Io all’interno della Collettività.

 

 



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