Editoriali "Arti Performative"

Una questione di “ricerca” andarsela a cercare?

Renata Savo

Una questione di “ricerca” andarsela a cercare?

La domanda emerge diretta, spontanea, dagli ultimi avvenimenti che hanno investito – e continuano a investire – più di un festival di arti performative dedicato ai linguaggi del contemporaneo. Non tanto in merito agli strani episodi inerenti il cambio di direzione artistica dei festival di Chiusi e di Volterra (per motivi diversi ma in entrambi i casi legati alle amministrazioni locali). Pensiamo, piuttosto, alla mozione parlamentare partita dal leghista Massimiliano Fedriga nei confronti del festival di Santarcangelo, per la presunta mancata identificazione dei cittadini nei valori che ispirano la storica manifestazione (finanziata con i soldi pubblici); così come alle recenti accuse mosse all’amministrazione locale di Operaestate di Bassano del Grappa dall’assessora regionale Elena Donazzan, che chiedeva il ritiro del patrocinio del Comune per la presenza di due progetti sui temi del “gender” e delle migrazioni (Migrant Bodies e Performing Gender): il festival romagnolo si è concluso con un decisivo incremento di pubblico rispetto alla precedente edizione; la seconda accusa, a Bassano del Grappa, con un vero e proprio epic fail dell’assessora regionale, perché i due progetti, difatti, non sono finanziati dall’amministrazione locale, ma dai fondi europei (vinti su bando della Commissione Europea).

In entrambi i casi si tratta di questioni che all’atto pratico non dovrebbero esistere, perché i finanziamenti statali, in un paese libero, devono – senza “se” e “senza ma” – confluire in manifestazioni che provochino delle aperture di pensiero, delle riflessioni sul tempo, sulle radici culturali delle diseguaglianze, per estirparle; certamente non in progetti aderenti a una visione commerciale dell’arte, che abbia il divertere come fine. E tuttavia, con il Santarcangelo Festival, le polemiche erano partite da prima dell’evento stesso, nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori all’indomani della conferenza stampa, quando cioè, era chiaro che la parola “party”, inglese e leggera, avrebbe spazzato via il “teatro”.

Tralasciando per un attimo le opere performative, senza dubbio, arrivati a Santarcangelo, la sensazione è stata quella di trovarsi un po’ spaesati, per non dire “spiazzati”. Nel nome dell’internazionalità della proposta di Eva Neklyaeva e di Lisa Gilardino, qualche evento ha risentito di una certa “esclusività” che era decisamente opposta alle nobili intenzioni di un festival dall'”energia contagiosa” (Contagious Energy è stato il sottotitolo di questa edizione). Ne è stato un esempio l’Openlove Point aperto presso la Scuola Elementare Pascucci e allestito in collaborazione con il MACAO di Milano: luogo di incontro per rifondare la cultura sulla base di un pensiero partecipato, condiviso e trasparente: sulla carta, un’occasione per proporre «nuove forme di governance e strumenti finanziari che possano influenzare la gestione del festival»; di fatto, però, chi è passato di lì il 7 luglio come noi, avrà visto fascicoli di fotocopie ordinati su un tavolo, sistemati su quasi due lati del perimetro della sala (ma il festival non era eco-friendly?), con schemi e grafici di non facile lettura, e che difatti non sono stati illustrati nel corso dell’incontro con l’ospite, un attivista e ambientalista indiano, Ashish Kothari, tra i fondatori di Kalpavriksh, organizzazione no profit che si occupa di progetti ecosostenibili. Peccato che la parte che ha preceduto la sua conferenza, a cura del gruppo di MACAO, sia andata diluendosi in parole non essenziali, costringendo a sacrificare i tempi necessari a una traduzione in italiano della presentazione di Kothari (per conoscere il suo pensiero, rimandiamo, comunque, al suo sito web: www.kalpavriksh.org).

Ashish Kothali, attivista indiano ospite dell’Openlove Point il 7 luglio

All’uscita, di fronte all’info point nella piazza centrale, una colonna riportava, appesi, i commenti negativi che erano stati espressi dagli abitanti di Santarcangelo al festival nei mesi precedenti, un esperimento condotto da un gruppo di studenti dell’ISIA – Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino. La presenza dei fogli richiamava l’attenzione dei passanti, che erano così invitati a manifestare il proprio disappunto con un’azione scandita in tre tempi: la rimozione del foglio, la sua “bollatura” attraverso macchie di colore, e lo stare fermi in posa per farsi scattare una foto che testimoniasse la volontaria presa di posizione. Chiaro che, leggendo i commenti sui fogli, venivano fuori pregiudizi alquanto infondati e sconclusionati, ma sicuramente l’averli messi in bella vista, anche se in forma anonima, può essere stato per alcuni letto come un gesto assai provocatorio: un mettersi “contro” anziché “in ascolto”. Non fanno troppa meraviglia, quindi, le reazioni della destra locale, la mozione parlamentare, e le recensioni negative lasciate sulla pagina Facebook del Santarcangelo Festival. Tra queste desta un certo ribrezzo veder citato, fra habitat e (apparenti) “leggerezze”, persino il Museum of Nonhumanity allestito all’interno del Supercinema per riflettere sui risultati della distinzione tra umano e non umano immaginando conclusa la storia della discriminazione, un progetto realizzato dall’artista finlandese residente a New York Terike Haapoja e Laura Gustafsson, autrice e regista finlandese che vive a Helsinki: come se la storia del comportamento disumano dell’uomo – una disumanità obiettiva – potesse ridursi a una questione di faziosità (siamo seri?). O meglio, non si tratta tanto di risolvere il dualismo “destra”/“sinistra”, che oggi lascia il tempo che trova, quanto di porre fine a un male oggettivo ancora radicato; quel Male con l’iniziale maiuscola che spinge una comunità a commettere gli stessi errori, i disastri ambientali, le tragedie umanitarie, i genocidi: l’ignoranza. Il problema di una difficoltà di dialogo su alcuni temi, allora, non investe i “contenuti” in sé – “gender”, “migrazioni” – (anche se così appare), ma la “forma” in cui essi vengono affrontati. Bisognerebbe partire dall’interrogarsi sulla forma più adatta a veicolare queste tematiche: che sia “permeabile” – anche – rispetto a certi schemi culturali. Ciò si traduce, per gli artisti e i direttori artistici, in una sfida: come posso fare a raggiungere una determinata fascia di persone (di cui pure sono utilizzate le risorse, perché pubbliche), dotate di un certo bagaglio culturale, di una particolare educazione, convinte della loro posizione? Facile dire: “sono degli ignoranti”. Un po’ meno facile far cambiare idea o introdurre nella loro visione del mondo il dubbio di essere nel torto.

Museum of Nonhumanity

Da questo punto di vista, per esempio, un luogo come il Museum of Nonhumanity, con la sua essenziale, sobria maniera di esporre i contenuti, meriterebbe di essere permanente e non temporaneo, per la sua capacità di porsi come modello di una forma altamente permeabile. Il progetto ha compreso una videoinstallazione in uno spazio semibuio, occupato da pochi oggetti quasi nascosti, mostrati senza alcuna retorica (per esempio una “coperta di sopravvivenza” dietro una vetrina), e una serie di incontri giornalieri condotti da studiosi, artisti e attivisti in dialogo con il pubblico per una società più inclusiva. L’installazione prevedeva un limbo oscuro ma neutro, con maxischermi su cui scorrevano testi assai diversi, da definizioni tratte dal vocabolario, a estratti, concetti poetici, di artisti perseguitati, che hanno intrecciato linguaggio e politica (come il regista teatrale Bertolt Brecht), alle dichiarazioni sulla Shoah che sono state rilasciate durante i processi giudiziari. Parole pesanti schiacciate sui piani bidimensionali degli schermi dall’aspetto monumentale: un formato semplice e familiare lo schermo, che sembra catturare, sovrastare, l’osservatore, e trascinarlo nella riflessione insieme a un grande senso di impotenza; parole di chi era incaricato di attivare le camere a gas nei campi di concentramento, per esempio, o di individui come Franz Stangl, ufficiale delle SS, che partecipò alla realizzazione del “programma eutanasia” per le persone affette da handicap mentali non curabili o patologie genetiche, e che, giudicato per la morte di 900.000 persone, rispose: «Ho la coscienza pulita. Ho semplicemente adempiuto ai miei compiti».

Una questione di “ricerca”, dunque, andarsela a cercare? A questo punto sì, ma se ogni tanto si riuscisse anche a essere un po’ meno ambiziosi nella ricerca per farsi cercare, non sarebbe del tutto sbagliato.



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