Arti Performative Dialoghi

Una “Butterfly” a misura di bambino: intervista a Massimo Conti di Kinkaleri

Valentina Crosetto

Dopo la presentazione al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna e a Bassano del Grappa per Operaestate Festival, Butterfly di Kinkaleri va in scena alla Casa Teatro Ragazzi e Giovani di Torino (e subito dopo, al Teatro di Vetro di Milano) nell’ambito del Festival MITO SettembreMusica. Qui, un’intervista al fondatore di Kinkaleri per comprendere meglio il rapporto dell’opera con il teatro-ragazzi.

L’opera, come non l’avete mai vista. Perché, a leggere con attenzione, i libretti narrano di eroine tragiche, amori struggenti, villains, inganni e magie, proprio come nelle favole per bambini. Anzi, sembrano personaggi creati su misura per catturare l’interesse dei giovanissimi. Quest’anno, all’interno della decima edizione del festival musicale MITO SettembreMusica (2-22 settembre 2016), fra i titoli programmati esplicitamente per pubblici di Under 10 fa capolino una Butterfly (2015) rivisitata dalla compagnia di teatro-danza fiorentina Kinkaleri – qui, un video promo dello spettacolo – che sarà presentata in due date, il 17 settembre a Torino (Casa Teatro Ragazzi e Giovani) e il 18 a Milano (Teatro di Vetro). Dell’originale pucciniano e della sua riscrittura addolcita in fiaba – interpretata da Marco Mazzoni e da Yanmei Yang – abbiamo parlato con l’autore Massimo Conti.

 

Nella percezione comune, l’opera è spesso considerata una passione per pochi eletti e in molti casi troppo difficile per essere proposta a un bambino. Il teatro lirico, però, non è altro che il connubio di musica e narrazione. E le storie, si sa, riescono sempre ad affascinare i più piccoli…

Volevamo verificare la capacità comunicativa ed emotiva di una forma d’arte come l’opera, in particolare il melodramma italiano, tradizionalmente concepita come racconto popolare. Col tempo l’opera è diventata appannaggio di pubblici elitari, affinati alla comprensione colta e competente della musica. A noi interessava procedere all’inverso, cioè trasferire questa tradizione a un pubblico di bambini – chiaramente non abituato all’ascolto disciplinato – ma senza nulla perdere della tensione emotiva del melodramma. Il recitar cantando può sembrare l’ostacolo più forte per chi non è avvezzo a certe modalità costitutive dell’opera, ma la sorpresa più grande è stata constatare come il canto, montato e alternato nella maniera giusta all’azione, arrivi all’attenzione del bambino con una precisione tale da rafforzare il percorso narrativo ed emotivo da noi ricercato. La soddisfazione maggiore è quella di aver esplorato in profondità certi titoli provando a mantenerne intatto lo spirito, la grandezza, la comunicabilità, la relazione diretta con lo spettatore, senza ridurli in operine a misura di bambino. Volevamo far respirare ai più piccoli la vera atmosfera dell’opera e prolungarne, in questo senso, l’eredità. 

Dopo Nessun Dorma (2010) ispirato a Turandot proponete un’altra favola tragica di ambientazione esotica. Perché due melodrammi sull’Oriente mitico e perché proprio Puccini?

Ci è stato proposto di lavorare su Puccini innanzitutto per le sue origini toscane. Ma Turandot e Madama Butterfly, più di altre opere, pongono come radice del conflitto drammatico il contrasto, la relazione controversa, l’antinomia millenaria e quanto mai attuale fra Oriente e Occidente. In Turandot (1926), al mito della principessa crudele che odia la parte maschile dell’umanità si aggiunge l’idea di un’emancipazione femminile totalmente impensata per una fiaba esotica, eppure in linea con i primi rapporti conflittuali di genere del Novecento. Butterfly, invece, che appartiene a una fase precedente (1904), accetta ancora l’equivoco culturale con cui l’Occidente gioca e l’Oriente muore. Sostituire al principe Calaf che combatte per amore un eroe dell’inganno come lo yankee Pinkerton, cinico e libertino, significava indagare in un’ottica quasi “cinematografica” il dolore fisico e non più solo intellettuale della vittima Cio-Cio-San. La storia della giapponesina sedotta e abbandonata che si toglie la vita quando scopre che il marito l’ha tradita ruota tutta attorno al momento finale del suicidio. La dignità tragica di quel gesto, di quella morte celata per paradosso dietro a un paravento, non volevamo sottrarla, anzi, abbiamo cercato di affrontarla senza nasconderla, anche se avevamo a che fare con un pubblico di bambini. Per farlo abbiamo trasformato la morte in un rito teatrale, da cui i bambini risultano completamente travolti ma che non sono indotti a rifiutare. 

Madama Butterfly consentì a Puccini di esplicare tutta la sua capacità di commuovere, di esercitare quel “ricatto dei sentimenti” a cui le platee di tutto il mondo, allora come oggi, difficilmente riescono a sottrarsi. Quali sono le reazioni del vostro particolare pubblico?

Nel momento del suicidio e soprattutto della catarsi finale di Butterfly, lo stupore collettivo dei presenti è tale da richiamare alla mente quello dei vecchi teatri degli anni ’40 e ’50, quando il pubblico si alzava in piedi per manifestare apertamente la propria partecipazione agli eventi in scena. Certo, in una rappresentazione per l’infanzia pensata per una platea dai 6 anni in su, la storia è inevitabilmente complicata da elementi – come l’egemonia culturale dell’Occidente, la crudeltà dell’uomo spudoratamente elastico in affari come in amore, il valore dell’attesa contro la leggerezza del maschio frivolo e smemorato – che è meglio far recepire nel flusso del racconto senza approfondire troppo. In generale, però, non abbiamo mai avuto problemi veri di comprensione.  

L’interdisciplinarietà è un po’ il vostro biglietto da visita. Butterfly, infatti, procede per accumulazione di codici espressivi: la tradizione operistica e i linguaggi visivi contemporanei, la pratica del recitar cantando e l’aggiunta di brani jazz. Come avete lavorato sulla struttura drammaturgica del testo? Cosa avete privilegiato o tagliato rispetto all’originale?

Abbiamo rispettato la struttura drammaturgica senza stravolgere nulla: a partire da un prologo, che ovviamente nell’originale non esiste, si procede lungo i momenti salienti che guidano a quel finale, offrendo a ogni passaggio le motivazioni già presenti nell’opera. Quanto alla musica in aggiunta alla partitura di Puccini, la scelta di un brano estratto dalla colonna sonora del film di Jean-Luc Godard, Vivre sa vie (1962), ha il potere di rievocare una vicenda analoga a Butterfly, quella di una ragazza che non riesce a trovare la sua collocazione in un mondo governato dagli uomini e a sottrarsi alla degradazione cui la sottomettono. Il pezzo composto da Michel Legrand per accompagnare il ballo di Nana attorno al biliardo voleva essere un omaggio a uno dei maestri più importanti del jazz, ma anche uno stratagemma per far interagire mondi musicali tanto diversi semplicemente con l’ingresso di un registratore portatile. Il nostro è un approccio all’’interdisciplinarietà molto sfumato e la permeabilità dei vari elementi, musicali e scenici, rappresenta il punto di partenza obbligato grazie al quale trovare poi le soluzioni. Con l’inserimento del brano di Legrand non ci interessava riattualizzare Butterfly ma trovare quel ritmo capace di descrivere la felicità condivisa da Pinkerton e Cio-Cio-San, fino a travalicare i confini stessi del palcoscenico.

Un danzatore, un soprano e una messinscena essenziale, fatta di nastro adesivo, proiettore, ombre. Col suo minimalismo, Butterfly ricorda molto le operine dei burattinai che un tempo facevano risuonare le arie più famose nelle piazze di paese.

In effetti, è così. Ogni nostro allestimento ha la sua grandezza ma nella sua semplicità è trasportabile. Andiamo in giro con un furgoncino che sembra davvero il carrozzone dei burattinai itineranti. L’eredità di questa antichissima tradizione è inscritta nel nostro modo di fare teatro, come quella di tanti altri patrimoni culturali: in certi casi la sperimentiamo consapevolmente, in altri, solo quando mettiamo i piedi in determinate esperienze.

In questo “gioco” scenico che è anche ricerca tra bidimensionalità stilizzata e tridimensionalità illusionistica, i bambini però non sono semplici spettatori, interagiscono direttamente con i personaggi.

Ad un certo punto, la barriera del palcoscenico viene frantumata e si chiede ai bambini in sala di intervenire insieme ai performer per trovare il modo con cui comunicare che Pinkerton è tornato, ma non da solo. C’è una scena, in particolare, che racchiude il senso di esclusione crudele che questa storia si porta dietro: l’andirivieni del bimbo di Butterfly, che abbandona i giochi coi compagni per richiamare l’attenzione della madre. In quel momento, risuona la sirena della nave di Pinkerton e Butterfly ha già dimenticato il figlio.

Dopo il tour con Butterfly in giro per l’Italia, avete già pensato a nuovi progetti?

Il 30 settembre presenteremo una performance insieme al fotografo di moda spezzino Jacopo Benassi (No Title Yet) all’interno del Contemporanea Festival di Prato, mentre a Genova cureremo il collettivo KLM insieme alle compagnie di danza Le Supplici e MK. Per i bambini, invece, non abbiamo pensato ancora a nulla: a febbraio riproporremo però la conferenza-spettacolo Hit-Parade, che si ispira alle rivoluzionarie produzioni dei Balletti russi e dei Balletti svedesi del Primo Novecento, per far rivivere ai più giovani il clima di fervore artistico che trasformò la Parigi degli anni ’20 nel crocevia delle avanguardie novecentesche.



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