“Per un teatro poliglotta”: Alejandro Radawski, regista dall’identità cosmopolita, racconta il suo lavoro su “IL CLAN”
Alejandro Genes Radawski porta nel nome la costruzione di un’identità e di un linguaggio cosmopolita. Argentino-polacco, si è formato a Buenos Aires, ed ora insegna drammaturgia a Cracovia, dove tra l’altro ha portato in scena “La casa di Bernarda Alba” al Narodowy Stary Teatr (teatro nazionale): un testo di Federico Garcìa Lorca che Radawski ha riscritto in polacco e reintitolato Dom Bernardy A. Percorso linguistico inverso è stato portare a Buenos Aires alcune opere in polacco di Witold Gombrowicz, come Federydurke e Ivonne, principessa di Borgogna. Tra i suoi interessi non manca far dialogare tra loro culture diverse, e l’ibridazione delle lingue de IL CLAN – Settemilatrecento lune, testo di Erika Janet Rinaldi che ha diretto al Teatro di Documenti a Roma dal 31 ottobre al 2 novembre, ne è una conferma. Protagonista de “IL CLAN” è una dinastia la cui progenie avanza di generazione in generazione seguendo oscuri e incestuosi meccanismi. Romero, il padre, è il simbolo dell’autoritarismo nazista, che agisce con violenza sulla famiglia-popolo incarnata dalla moglie Berta e dalla figlia Angustia, solo per salvaguardare la purezza della linea di sangue. Una nonna e madre-sorella tenuta all’ospizio sono la chiave per svelare il piano malefico e permettere alla nipote di riconoscere un fratello che si dava per disperso. Per l’occasione, Radawski ha lavorato con attori di varia nazionalità, portando in scena un’opera raffinatamente ricca di accenti diversi. Qui la nostra intervista al regista.
Partiamo dalla tua nazionalità polacco-argentina e la tua biografia a dir poco internazionale, che lasciano presagire un teatro poliglotta. Come e perché tante peregrinazioni? Come influenzano il tuo linguaggio teatrale?
Il teatro stesso è poliglotta. Dal mio punto di vista, in un’opera parlano tutte le lingue e la meno importante è proprio quella parlata. Credo in un teatro universale, privo di nazionalità: il teatro deve far tremare, muovere le nostre viscere, qui in Finlandia (dove vivo ora) tanto quanto a Roma o in Cina. È per questo che costruisco un teatro che cerchi di modificare le persone, dove il pubblico si senta a disagio, per tirarlo fuori dalla pacifica vita borghese almeno per un po’.
Mi muovo tutto il tempo per coltivare il mio linguaggio teatrale, ogni nuova esperienza in ogni paese è un enorme apprendimento. Restare solo in un posto sarebbe stagnante, farebbe diventare prigionieri del sistema culturale di quel paese, dove i programmatori mettono in cartelloni gli amici, le giurie ricompensano gli amici e i critici applaudono solo un certo modo di fare teatro, che è il modo “snob” che i responsabili culturali di quel paese hanno imposto. Ciò mina la diversità e la pluralità delle voci e ci obbliga ad ascoltare la stessa melodia. Come se a forza d’indottrinamento ci stessero tracciando il nostro percorso culturale. Come se con le loro dita accusatrici ci dicessero: “restate qui, questo è ciò che deve essere fatto, e questo è ciò che vedrà il pubblico”.
Il tema delle radici. Leggere la tua biografia porta da un lato all’altro del mondo occidentale. Non senti il rischio di perdere le radici identitarie? Pensi che questa idea di ricerca e perdita dell’origine influenzi la tua arte?
So solo che senza rischi non c’è creazione, e questo è l’unico modo in cui io so fare teatro. L’identità è qualcosa che non si perde mai e per me essere in grado di nutrire me stesso con altre culture e rafforzare la mia è una cosa meravigliosa. Imparare dagli altri, accettare altre forme, moltiplicarsi, aprirsi, tutto questo, di questi tempi, favorisce la tolleranza che rappresenta un pericolo per i governi di destra. Avere paura di cambiare, di rischiare, di perdere qualcosa, è la decisione più codarda che un artista possa prendere.
Questo polilinguismo sembra dilagare nella versatilità dei tuoi ruoli: regista, drammaturgo, burattinaio, scenografo, ecc., come concepisci i tuoi ruoli rispetto a quello dell’attore?
Il mio modo di fare teatro è mettere tutti i ruoli al servizio della creazione di uno spettacolo. In questo equilibrio nessun elemento è più importante degli altri: gli attori hanno lo stesso valore della scenografia, il testo conta tanto quanto il disegno luci. Cerco di dare una direzione in cui nessun ego possa prevalere, cercando di attribuire ai miei spettacoli il valore di una melodia. Se una delle lingue prevalesse, questa sarebbe una dissonanza. Come regista, la prima cosa che penso è un’estetica, e la seconda è un dispositivo scenico: tutto è configurato sotto queste due cose.
Ne IL CLAN convivono in scena, appunto, attori di diversa provenienza. Com’è stato con questo fattore multilinguistico? C’è un ruolo specifico, nella costruzione di quest’opera in particolare, di tanta divergenza di accenti?
Il regista teatrale polacco Tadeusz Kantor divenne famoso in tutto il mondo con le sue opere teatrali e ai suoi tempi non c’erano i sottotitoli, nessuno capiva una sola parola di ciò che i suoi attori dicessero. Eppure le sue opere erano di assoluta espressività, ed è quello che cerco io: faccio teatro per le persone che non ascoltano le parole, per quelli che sentono il non detto. Spettatori che sono commossi dal teatro e non dalla letteratura. Se si vogliono le parole, non vale la pena andare a teatro, ma piuttosto in una biblioteca o ad ascoltare una lettura drammatizzata. Per questo motivo ne IL CLAN ciò che meno importa è quello che è detto, la parola, il testo. Credo che la carica esplosiva che gli attori abbiano nei loro occhi sia più importante dell’accento, e che ciò che fanno, ciò che tacciono e ciò che trasmettono con il loro corpo sia più potente del semplice parlare.
Com’è stato lavorare i singoli attori, puoi raccontarci qualcosa di loro?
Lavorare con ognuno di loro è stato meraviglioso, hanno capito velocemente il codice teatrale che volevo stampare per questo lavoro. Chiarisco “questo lavoro”, dato che ognuna delle mie opere è diversa. Lavoro ogni volta con aspetti diversi del teatro. Gli attori si sono dedicati al gioco in modo assoluto e la cosa più importante che un attore possa avere è per me ciò che questi sette hanno: non hanno mai chiesto “perché?”. Hanno semplicemente giocato, hanno fatto, creato, per trovare delle risposte. Sono attori che non lavorano partendo dalle domande, ma cercano delle risposte che arrivano man mano. Questa è magia, per me.
Con Michelangelo Tarditti volevo creare un padre oppressivo nel migliore stile-Hitler, ma senza cadere in uno stereotipo. È per questo che non alza la voce e si muove lentamente come un’ameba ma è pericoloso come uno squalo; Laura Sellari interpreta sua moglie, i suoi sguardi sono come mille coltellate, incarna magistralmente il dualismo che attraversa una donna innamorata di un uomo che ferisce: quella costante lotta è in lei latente per tutta l’opera; Alla Krasovitzkaya ha composto dal minimo, dalla paralisi, dalla donna che ha provato e fallito, che ha voluto rivelare e ha perso, e lo fa in modo chirurgico; Erika Rinaldi ha lavorato in modo eccellente sul suo personaggio, una figlia assoggettata al padre: nel suo sguardo c’è la chiave della sua performance; Eleonora Lipuma è un’immensa attrice, incarna il ruolo della serva, complice delle atrocità, soffre ininterrottamente degli orrori di cui è testimone e il suo corpo ne vibra perfettamente; Fulvio Sturniolo è un attore super-tecnico, è come la super marionetta di Gordon Craig; e Jethro Pantoja Saluzzi deve essere per tutto il tempo sul palco quasi senza parlare, perché è il morto che rivive il suo atroce omicidio, e lo fa perfettamente. E voglio anche sottolineare il contributo di Claudia Candiloro, l’assistente alla regia, una stella che è stata determinante nel processo creativo. È giovane, talentuosa e il suo occhio critico è molto preciso.
Come ti sei confrontato con una drammaturgia in italiano? Quale mezzo hai usato per attraversare un testo fatto di parole di una lingua che non ti appartiene?
Non è la mia lingua madre, naturalmente, ma per fortuna parlo e capisco l’italiano quasi perfettamente.
Per quanto riguarda il testo, per me è la cosa meno importante, al momento, della regia. Potrei persino dire che “il testo fa schifo”, di qualsiasi autore. Lo faccio anche con le mie opere. Ovviamente quando ho accettato di fare la regia dell’opera di Erika, era una condizione che lei ha accettato generosamente. L’originale non era intitolato IL CLAN, e aveva 76 pagine: io l’ho accorciato a trenta e ho scritto altri sei monologhi per gioco. Ho distrutto l’originale per ricostruire IL CLAN. Distruggere la letteratura per costruire il teatro: questa è la mia forma.
(Foto di copertina di Ezequiel Altamirano)