The Yokohama Project 1867-2017 @ Palazzo Litta, Milano
Giada Ripa è una fotografa interessata ai fenomeni antropologici ed il cui lavoro è teso a riconoscere il valore delle peculiarità culturali, sociologiche e storiche dei luoghi oggetto della sua ricerca artistica. Tra questi, particolare attenzione è rivolta all’Asia, un continente tanto lontano dal punto di vista geografico quanto da quello culturale dall’ingombrante occidente. Ed è proprio al Giappone, Stato insulare dell’Asia orientale, alla sua storia, poco nota fino alla fine del diciannovesiomo secolo, ed alla percezione di esso che l’artista ha voluto dedicare una mostra dal titolo The Yokohama Project 1867-2017, ospitata dal 4 al 29 ottobre all’interno delle sale di Palazzo Litta a Milano.
Yokohama è la città più popolata del Giappone, situata nella regione di Kanto di Honsu, la maggiore delle isole nipponiche, ed è il punto dipartenza ed insieme il centro di tutta la narrazione fotografica oggetto dell’esposizione. Due sono gli incontri fortuiti, e fortunati, che hanno permesso alla fotografa di entrare in contatto con la città di Yokohama e con una parte della storia del Giappone in generale, con le sue tradizioni e la quotidianità dei suoi abitanti in un determinato periodo storico. Il primo è quello con un album di vecchie foto, cinquantatrè albumine colorate a mano con ritratti e vedute della città di Yokohama, attribuite al fotografo Felice Beato, uno dei primi a documentare in maniera visiva il Giappone della metà dell’Ottocento. Il secondo è quello con un manoscritto inedito di Matilde Ruinart de Brimont, antenata di Giada Ripa e moglie del diplomatico Vittorio de La Tour, primo diplomatico italiano ad essere nominato ministro plenipotenziario in Giappone. La correlazione tra i due pionieri conoscitori dell’isola dell’estremo oriente, stabilitisi entrambi nella città di Yokohama durante la metà dell’ottocento, non è però altrettanto casuale, e lo dimostra il fatto che le fotografie ritrovate dalla Ripa sono testimonianza di una probabile amicizia della Ruinart con Beato, il che spiegherebbe il ritrovamento delle stesse nella casa di famiglia dell’artista. Era inevitabile, a questo punto, che la fotografa cominciasse un viaggio all’indietro nelle testimonianze storiche che le si presentavano davanti e che si ponesse quindi come punto di incontro e di dialogo tra le foto di Beato e la raccolta delle memorie di viaggio della sua antenata. La mostra è dunque strutturata in un confronto dialogico tra le testimonianze del passato e quelle di una contemporaneità che vi si sovrappone in segno di continuità ma anche di discrepanza, necessaria cesura con un passato non troppo lontano. Le foto di Felice Beato infatti, sono anticipate da immagini che ritornano sugli stessi soggetti ripresi dal fotogiornalista dell’ottocento ma che raccontano una realtà contemporanea del Giappone, del tutto condizionata dai fenomeni di globalizzazione e di generale apertura al mondo. Una Yokohama, quindi, ripresa immediatamente dopo la fine del regime dello Shogun, che teneva le porte chiuse all’ingresso degli stranieri, accanto ad una stessa Yokohama inevitabilmente condizionata da fenomeni di contaminazione e di modernità. “The Yokohama Project 1867-2017” è per questa ragione una mostra divisa in due capitoli, il primo composto dalle fotografie di Beato che appartengono all’album Views Historical notes and Native Types of Japan – 1868, dai disegni di Matilde Ruinart tratti dal suo Carnet de Voyage e dalle lettere che fanno parte del suo diario Voyage au Japon 1867 – 1870. Il secondo capitolo è invece focalizzato sulle immagini della stessa Giada Ripa, realizzate tra il 2014 e il 2016, e che narrano una visione personale e postmoderna del Giappone alla ricerca di possibili analogie con i soggetti ed i paesaggi che emergono dalle testimonianze rinvenute. È da notare che le immagini della Ripa sono fisicamente sovrapposte a quelle di Beato ed alle stampe dei manoscritti della Ruinart. Ciò farebbe pensare ad una disposizione dettata da ragioni di spazio e di ingombro delle sale che ospitano l’esposizione ma, se si entra nell’ottica dell’intenzione che deve aver mosso l’artista in direzione di questo progetto, risulta chiaro che il visitatore è chiamato ad affacciarsi alle spalle di ciò che risulta immediatamente visibile e fruibile in una dimensione conoscitiva che, nel suo essere immediata ed autentica, non lascia spazio all’immaginazione di quanto diversa potesse essere stata centocinquant’anni prima. Lo sforzo fisico richiesto è quindi un invito ad indagare quali sono i preupposti ed il principio dell’identità culturale che si manifesta nei fenomeni sociali ed antropologici della contemporaneità. Essa risulta infatti necessariamente modificata nelle sue manifestazioni ma, ad un’analisi più profonda, diventa evidente quanto essa sia la propagazione nel tempo di una tradizione culturale che affonda le radici in millenni di storia. Lo dimostrano ad esempio le foto di Beato che sono state rinvenute in ottime condizioni e che sono sempre accompagnate da didascalie scritte da James W. Murray e che lo stesso fotografo ha voluto inserire allo scopo di fornire un’interpretazione al lettore. Le immagini di Felice Beato costituiscono una delle prime testimonianze di un paese sconosciuto e per questo una fonte di narrazione ed interpretazione del Paese. L’esposizione è completata da un video realizzato dalla stessa Giada Ripa attraverso riprese di paesaggi e di scene quotidiane di un Giappone postmoderno. La colonna sonora che accompagna le immagini del video e che si avverte già dall’ingresso alla mostra, evoca suggestioni di un passato che viene richiamato alla memoria nell’intento di recuperarne l’autenticità e di restituire ad esso il valore culturale ed antropologico di cui è portatore.