The Wedding Guest
La sindrome di Stoccolma è una patologia psicologica particolare, nella quale la vittima di un’aggressione, o di una rapina, si ritrova a provare un affetto o addirittura un sentimento amoroso verso il rapinatore/aggressore, dopo un determinato periodo di tempo condiviso insieme. Seppur non riconosciuta come vera e propria dipendenza mnemonica, il cinema e la televisione hanno fantasticato spesso sull’ambiguo manifestarsi di tale sindrome.
Ultimamente l’abbiamo vista con una delle serie fenomeno del momento, ossia la Casa di carta di Alex Pina, prodotta da Netflix, nella quale nell’arco delle momentanee tre parti (stagioni) della serie, la sindrome appare nel contesto della rapina alla zecca di stato in Spagna, fra alcuni rapinatori e gli ostaggi.
Tale concetto va a introdurre un po’ le vicende del nuovo film del regista britannico Michael Winterbottom, che torna nelle sale (momentaneamente non quelle italiane) con The wedding guest.
Dev Patel – che molti ricorderanno per le strabilianti interpretazioni in The Millionare (2008) e in Lion – la strada verso casa (2016) – stavolta interpreta Asif, un criminale che su commissione va in Pakistan per rapire Samira, il giorno prima delle sue nozze. Asif è pagato per far fuggire Samira dal Pakistan, e per portarla in India e farle incontrare l’uomo che ama, ossia Deepesh. Inizialmente turbata e spaventata dalle azioni di Asif, Samira poi comprende che il criminale è stato pagato per farla fuggire da un contesto familiare e sociale che la opprimeva e non la rendeva libera e felice, e da un contesto politico dove la donna disgraziatamente viene ancora considerata come un oggetto, della quale deciderne futuro e destino.
L’inaspettata paranoia di Deepesh, che comincia ad allontanarsi a causa dei media che pubblicizzano la scomparsa di Samira con Asif, costringe per forza di cose il rapinatore e il suo ostaggio a creare un rapporto di complicità, in continua fuga e in totale intimità, e alla ricerca di una vita migliore.
Winterbottom crea un film che dalla trama descritta sembra (e in alcuni tratti è) altamente lineare, scolastico, canonico, ma che nella visione e soprattutto nella prima parte diventa un oggetto da scoprire per lo spettatore, che inizia questo viaggio fra l’India e il Pakistan insieme ad Asif, non sapendo niente delle sue azioni e dei suoi obiettivi, e questo risulta alquanto interessante, dato che il regista cerca di rendere appetibile una narrazione appunto apparentemente – leggendone la sinossi – prevedibile.
Di rilievo è anche la contrapposizione iconografica che si intravede nel film, perché l’India e il Pakistan nella pellicola vengono divise attraverso contenuti visivi: Il Pakistan nella prima parte appare come sfacciato paese orientale/islamico, pieno di caos, di criminalità e di povertà. L’India invece, seppur mantenendo dei tratti orientali, appare come un moderno stato occidentalizzato, nel quale la globalizzazione e il consumismo sono ben presenti, forti storicamente dell’influenza dei colonizzatori britannici, ed un Inglese come Winterbottom lo sa bene.
Divisione tra i due paesi, che inoltre è anche culturale all’interno della narrazione filmica. Samira è una donna – come annotato in precedenza – profondamente oppressa nel suo Pakistan, vittima di ferree ideologie religiose e sociali che la costringono a intraprendere un determinato stile di vita. La fuga è verso l’India, che è un paese così vicino quanto ideologicamente lontano in svariati contesti, e che lei vede come affascinante via di fuga, e il rapimento da esperienza angosciante, diventa una irrifiutabile opportunità.
Il problema del film del regista britannico, è che la sceneggiatura – che era stata di grande aiuto nello sviluppo della trama nella prima parte – cade completamente nella seconda metà della pellicola, avendo esaurito le cartucce a disposizione.
In primis, non riesce a scendere in profondità nei personaggi, lasciando colpevolmente scarna una loro descrizione psicologica allo spettatore, ed in un contesto sociale/culturale così forte, spinoso e delicato si poteva osare di più in tal senso, considerando anche la citata linearità della trama. In secondo luogo, la stessa trama, in conseguenza al lavoro della sceneggiatura, decade nella parte finale, portando ad un epilogo prevedibile – ma questo è l’ultimo problemi – e principalmente poco approfondito tra i due personaggi, lasciando allo spettatore una normalità di visione già familiare in altri e tantissimi contesti cinematografici.
Eppure c’è da notare che il film (forse) volutamente fa ciò, giocando con gli sguardi e la completa introspezione e introversione dei personaggi (soprattutto di Asif), e rendendo la narrazione diretta senza barriere, senza enfasi ed empatia, per raccontare un contesto amorfo ed apatico. Un po’ come accade in un film che ha creato molteplici discussioni nell’ultimo anno, ossia The Mountain di Rick Alverson, che rientra in tale categoria delle continue introspezioni – ancor più estremizzate -, però lo fa sia con una regia ed un estetismo scenico fin sopra le righe, e poi in un contesto narrativo, che costruito ad hoc, può appartenere a opere del genere.
Quest’ultimo concetto, seppur intrigante e da contestualizzare nella visione di tutto il minutaggio, non salva completamente il film dai difetti che fisiologicamente vengono alla luce, e dai temi – i quali stanno comunque nella categoria dei pregi – che potevano benissimo esser maggiormente saturati.
Resta comunque un film visivamente apprezzabile – che sensibilizza sul tema delle società orientali, lontane e culturalmente all’occhio degli occidentali arretrate – e anche in parte femminista, seppur diretto da “un” regista, il quale pone una sua solidarietà sull’insofferenza della giovane Samira.
La sindrome di Stoccolma in The wedding guest inizia come una misteriosa sensazione, e diventa in seguito qualcosa di più serio, duraturo e profondo, qualcosa che la rende tanto vicina all’amore. Allo stesso tempo, è una sindrome “curabile”, perché pur essendo (senza dubbi) bella, affascinante, piacevole ed emozionante per chi la prova, è destinata – almeno in tante storie – a scomparire.
- Diretto da: Michael Winterbottom
- Prodotto da: Melissa Parmenter, Michael Winterbottom, Deepak Nayar, Nik Bower, Dev Patel
- Scritto da: Michael Winterbottom
- Protagonisti: Dev Patel, Radhika Apte, Jim Sarbh
- Musiche di: Harry Escott
- Fotografia di: Giles Nuttgens
- Montato da: Marc Richardson
- Distribuito da: IFC Films (USA)
- Casa di Produzione: Ingenious Media, Riverstone Pictures, Stage 6 Films, Revolution Films
- Data di uscita: 08/09/2018 (Toronto), 01/03/2019 (USA)
- Durata: 94 minuti
- Paese: Regno Unito, Stati Uniti
- Lingua: Inglese