The Magnetic Fields – 50 Song Memoir
La copertina di 50 Song Memoir dei The Magnetic Fields ritrae un uomo provato dagli anni, con il volto segnato dalle rughe e lo sguardo malinconico, quasi smarrito. L’immagine di decadenza corrisponde perfettamente all’intento dei testi dell’album, ideati quasi interamente da Stephin Merritt, frontman (ma anche cuore pulsante) della band (formazione completa: Claudia Gonson, Sam Davol, John Woo). Infatti si tratta di una serie di dischi (cinque, per l’esattezza), contenenti i memoires – per dirla alla Goldoni – dell’artista, partendo dall’anno di nascita (1966) fino ad oggi, o quasi (2015). Ognuna delle canzoni, 50 in totale, presenta l’anno di riferimento e il titolo (esplicativo dell’argomento affrontato). Quest’idea anticonvenzionale e nient’affatto canonica rende 50 Song Memoir un’opera omnia, una sorta di testamento (che Merritt mediti il suicidio artistico?), un punto fermo nella longeva carriera musicale dei MF, “caposcuola” di quell’indie pop contrassegnato da venature elettroniche e folk a cui guarderanno anche i The National o i Beirut. Pur mancando di sinteticità – questi dischi durano complessivamente due ore e mezza –, l’abile polistrumentista newyorkese è attento a non “riciclare” le stesse sonorità, tanto da avvalersi dell’uso di più di cento strumenti.
Il primo dei cinque dischi ha un sound tendenzialmente brioso (se non altro caratterizza il primo decennio di vita), come si evince dalle orchestrali ’68 A Cat Called Dyonisus (ricordo di infanzia sull’amore non corrisposto tra lui e il suo gatto Dioniso che, ironicamente, “si è smarrito sui tetti di Siracusa”) e ’71 I Think I’ll Make Another World, il cui tema è l’invincibilità puerile (“cause I can see another world/and I can make it with my hands/who cares if no one understands/I can see it now// perché posso vedere un altro mondo/posso elaborarlo con le mie mani/che importa se nessuno comprende/lo posso vedere ora”) od anche dalla freschezza folk di ’74 No, nella quale Merritt confuta dei dogmi preesistenti: abbiamo prova del fatto che il guaritore Karmu (aka Edgar Warner) abbia curato migliaia di persone da disturbi psicofisici? La risposta è “no”; abbiamo prova che l’universo fisico sia un grande spettacolo olografico (come sostiene sua madre)? Ancora una volta: “no”; e via a seguire. Eppure c’è chi, come le sue amiche Carolyne e Gabrielle, crede ancora nelle fate e nei fantasmi.
Gli anni che presumibilmente coincidono con i ricordi di gioventù, sono raccontati nel CD 2, che spazia da uno psichedelico tributo agli anni ’80 (’81 How To Play the Synthsesizer; ‘84 Foxx and I) alle atmosfere corali di ’85 Why I Am Not A Teenager in cui l’uso di xilofoni e strumenti a fiato ammorbidiscono i contenuti incentrati essenzialmente sui lavori saltuari e sulla poca intelligenza dei cosiddetti “adulti”: “all that money they’ve got/they don’t give you a jot/when you never get paid/and you never get laid/this is why I am not a teenager//di tutti i soldi che guadagnano, non ti danno uno iota/quando non ti pagano mai/e non ottieni mai una licenza/questa è la ragione per la quale non sono un’adolescente”.
In accordo ad un temperamento più mite, le sonorità della terza parte di questo percorso scivolano verso un indie pop più ordinario (’92 Weird Diseases; ’93 Me And Fred And Dave And Ted’) anche se non mancano gradevolissime eccezioni che fanno da preludio al quarto disco: ‘86 How I Failed Ethics è, infatti, una straordinaria ballata dai toni fiabeschi e misurati, sembra quasi che Merritt stia recitando una poesia, nella quale racconta la sua fallimentare esperienza universitaria, complice l’indole ribelle.
Il quarto disco ha la forma dell’uomo in copertina: ingrigito dal tempo e nostalgico del passato, come lo si può essere in una notte fredda e nevosa (’01 Have You Seen It in the Snow?) dopo la quale, tuttavia, rinasce la speranza ed “il mondo si illumina di bianco nella luce del mattino”; ma anche paterno e saggio, come appare nella liricissimo pezzo ’02 Be True to Your Bar, un invito ad essere fedeli al proprio bar, ai propri amici e alle proprie tradizioni.
“L’ultimo” Merritt cambia registro, o meglio, raggruppa tutte le sue sperimentazioni sonore nello scoppiettante finale che è sia un ritorno ai fasti, nella folktronica dai tratti sopraffini di ’12 You Can Never Go Back To New York, che le vale ascolti reiterati nel tempo, sia un rimaneggiamento della gustosa psichedelia dei dischi precedenti (in ’13 Big Enough For Us, che ha una chiusa inaspettatamente morbida).
In quest’opera titanica – di cui non ci si stanca, nonostante la lunghezza – si saggia, come in un piatto di primizie, di tutto un po’ e si percepiscono le contraddizioni della vita date dalle bellezze dell’infanzia, dalle scoperte della gioventù e dalle storture dell’età adulta. Un lavoro, che è insieme un viaggio nelle vite degli altri e forse anche nelle nostre.