Cinema Il Film della Settimana

The House That Jack Built

Gaia Apicella

Lars Von Trier ha sempre usato il cinema come rappresentazione e liberazione personale, e su tutti un esempio è certamente la trilogia della depressione, formata da Antichrist, Melancholia e Nymphomaniac; in The House That Jack Built però, ultimo lavoro del regista danese presentato al Festival di Cannes di quest’anno (in Italia arriverà distribuito da Videa, ma non c’è ancora una data ufficiale di distribuzione), Von Trier non si sofferma più sul male della natura e sul male che accompagna l’essere umano nel corso della vita (temi di base nei film nominati prima e comunque presenti anche in questo), ma passa a uno stadio superiore: compie un’indagine psicoanalitica su sé stesso e sul suo rapporto con l’arte.

Il film è diviso in 5 capitoli, una delle caratteristiche più presenti nel cinema del regista danese, ognuno corrispondente a un omicidio. Inoltre, è caratterizzato da una struttura circolare: inizia in modo confusionario, per poi riprendere e spiegare quella parte soltanto alla fine. Il protagonista è Jack (Matt Dillon), ingegnere psicopatico ma in realtà con il sogno di esser voluto diventare architetto; è proprio questa sua insoddisfazione a trasformarlo in un serial killer, convinto di dover uccidere per raggiungere la perfezione: ogni omicidio che commette deve essere un’opera d’arte, sempre più elaborata e complessa, fino a raggiungere la bellezza assoluta.

La storia è ambientata negli anni ’70 negli Stati Uniti e mette in scena un periodo di 12 anni, ricchi di violenti omicidi compiuti dal protagonista. Per tutta la durata del film Jack si trova a parlare con una persona misteriosa, chiamata Verge (Bruno Ganz), che con tono ironico e provocatorio gli fa confessare i suoi pensieri e lo guida, agendo come una sorta di “voce della coscienza”. L’opera infatti si snoda attraverso un dialogo continuo tra i due personaggi, utilizzando inquadrature oggettive e continui movimenti di macchina pieni di carrellate e panoramiche. Nel capitolo finale del film, però, Verge appare fisicamente e conduce l’assassino negli Inferi; in questo epilogo infernale, Jack e Verge assumono la forma di una composizione artistica, chiaro riferimento al quadro “La barca di Dante” di Eugène Delacroix, con i volti dei due personaggi caratterizzati da una forte disperazione. Questa ultima parte, chiamata “Epilogo: Katabasis”, rende chiaro che Lars Von Trier ha usato tutti i riferimenti a Dante, alla sua Divina Commedia e a Verge (che rappresenta Virgilio) per trattare un motivo topico della letteratura: la catabasi, cioè la discesa dell’anima negli Inferi.

La prova attoriale di Matt Dillon è sicuramente importante; l’attore riesce a passare in modo naturale dai toni ironici e pungenti a quelli inquietanti e preoccupanti, inserendo spesso momenti drammatici di insicurezza e di ricerca su sé stesso (il lavoro è quello sulla solitudine di Jack e sul suo non avere un posto nel mondo).

Tutta la vicenda è caratterizzata da colori forti e da effetti visivi elaborati e, dal punto di vista grafico, anche i titoli di ogni capitolo sono misteriosi e trasmettono la tensione dell’intero film. Von Trier, attraverso il suo cinema provocatorio e spesso urtante, vuole descrivere e rappresentare l’io (le proprie ossessioni) e gli altri (gli esseri umani e la situazione attuale del nostro mondo che non mostra nessuna empatia e che è sempre più in declino).

Attraverso un montaggio macabro e parallelo, il regista danese collega e intreccia alla narrazione molte scene che riprendono vari argomenti riguardanti l’arte (con immagini di quadri), la storia (con scene tratte da documentari e da filmati d’epoca in bianco e nero), la letteratura (con riferimenti a Goethe, William Blake e Dante) e più in generale la vita (con spiegazioni sulla caccia e sulle tre tecniche di produzione del vino che vengono mostrate attraverso uno split screen per far notare la differenza tra esse). In questo modo Von Trier crea un’unità tematica che confluisce nel giustificare l’omicidio come opera d’arte e via per la perfezione: Jack non è un semplice criminale ma è un intelligente serial killer che ha un’interpretazione completamente personale dei suoi atti. Inoltre, è possibile notare il gran gusto di Lars Von Trier nell’ibridare diverse composizioni, che apparentemente potrebbero sembrare insignificanti, ma che in realtà costituiscono una parte importante e ricorrente del film. Ed è proprio questo continuo gioco citazionistico a configurarsi come un valore aggiunto del film, accrescendo l’atmosfera e rendendola più inquietante.

Anche il comparto musicale è molto importante; la colonna sonora prevalente è Fame di David Bowie, a cui si alternano brani di musica classica (Bach, Vivaldi, Wagner), mentre nei titoli di coda troviamo invece “Hit the Road Jack” di Percy Mayfield. Ma i riferimenti alla musica sono presenti anche a schermo, sia attraverso il video del pianista Glenn Gould sia in molte scene del film quando, in un vicolo, Jack si ritrova davanti al suo furgone rosso con dei cartelli in mano che sono relativi alle sequenze narrate (ad imitazione del video “Subterranean Homesick Blues” di Bob Dylan).

 

Concludendo, The House That Jack Built è un film sicuramente complesso e non per tutti i palati, ma che ha dalla sua proprio questa particolare forza espressiva, affascinante ma anche irritante, rendendo il prodotto sicuramente qualcosa di folle, come solo la mente di Lars Von Trier poteva concepire.



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti