Teatrop // “La maledizione del Sud”
Penultimo appuntamento con la stagione teatrale organizzata da Ama Calabria e diretta da Francescantonio Pollice. In scena, al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, Pierpaolo Bonaccurso, attore, autore, regista e direttore artistico della storica compagnia teatrale lametina Teatrop, con un lavoro di cui firma regia e drammaturgia La maledizione del Sud. Con lui il M° Fabio Tropea e la sua singolare “orchestra” di strumenti: la marimba, strumento musicale a percussione di origine africana; il didgeridoo, strumento a fiato tribale; tamburi; bicchieri di cristallo, omaggio a “E la nave va” di Federico Fellini.
Nel 2012 lo spettacolo ha vinto il “Premio del pubblico”, il “Premio Giuria” e quello come “Miglior attore” al Festival nazionale di Arci Teatro Avanti un altro!
Una scena nuda e buia accoglie l’attore come un grembo materno. Seduto su un cubo e introdotto da una striscia sonora, Bonaccurso principia il suo “cunto”. È una leggenda antica quella di Colapesce, che si perde nella notte dei tempi e che affonda le radici nella civiltà babilonese. Narra di un ragazzo, figlio unico di una famiglia di poveri pescatori, attratto dal richiamo del mare. Per salvare la sua terra, la Trinacria che, secondo la credenza popolare, poggia su tre colonne, si sostituisce ad una di esse ormai consumata dalle fiamme del vulcano Marsili.
La voce di Bonaccurso, in un felice melting pot di fonti letterarie che trattano di questo “mutante” mezzo uomo e mezzo pesce e in un denso gramelot di lingue del Sud, arcano e onomatopeico, poetico e ribelle, ripetitivo e ritmato, riesce a rendere fisica la partitura dell’anima che si immerge in profondità nell’universo sonoro creato da Fabio Tropea. Con grande sensibilità e capacità affabulatoria, sa partorire immagini che si ascoltano e si vedono. La storia diventa viva. Lo spettatore è preso per mano e, con uno scarto spazio-temporale, si trova su una remota e assolata spiaggia della Sicilia con Cola, ancora “nicu”, un occhio ceruleo e l’altro nero come l’abisso, che nuota con i pesci, come un delfino, spizzicando un’alga rossa.
“U patri”, muto, ripara le sue reti da pesca e la “matri” lo chiama a gran voce perché faccia ritorno a casa fino a quando non indosserà il nero del lutto per questo figlio rubato dal mare. Eppure Colapesce, che – in una sorta di misteriosa alchimia – si invera nel fraseggio verbale e musicale, non si acquieta nei significati acclarati dalle parole del narratore, ma mostra una fisicità in perenne mutamento che riveste il carattere ritualistico di una iniziazione. Spirito libero e generoso, si palesa al richiamo di una “brogna” suonata dal padre, sempre pronto ad aiutare la sua gente. La sua “diversità” genera prima orrore poi curiosità, fino alla scelta finale che lo consacra eroe e martire per la salvezza della sua terra, consegnandolo all’eternità del mito come esempio, sempre attuale, di altruismo, spirito di abnegazione, amore e sacrificio.
E da questo Mare nostrum che racconta di culture sedimentate e di creazione, che accoglie e inghiotte uomini e cose, emergono simboli di pietà popolare e personaggi della storia, della memoria e di un passato mitografico, orale e letterario, che appartengono alla tradizione mediterranea. Ci sono le “mammane” e le loro formule magiche per “sfascinare” la casa, “u zu Pascali” sempre pronto a fare da intermediario tra gli abitanti del paese e la famiglia di Colapesce, il re Borbone, i mostri Scilla e Cariddi, la folla vociante e la natura madre e matrigna.
L’originale tessitura musicale, creata da Fabio Tropea, utilizza una linea canora dal vivo, una sonora che riproduce i rumori della natura e una musicale pregna di echi mediterranei che si traducono sulla scena in atmosfere rarefatte, suggestive e irreali mentre parola e suono si prolungano reciprocamente l’una nell’altro.
Bonaccurso si sdoppia/si moltiplica in due, tre, quattro personaggi. Riesce a dare forma e voce a ciò che forma e voce non ha e quando parla Colapesce, si alza in piedi, avanza sul proscenio, assume una postura eretta, statuaria quasi, mentre le sue mani, con movimenti impercettibili, diventano palmate.
In questo suo narrare fluttuante, Bonaccurso non compie un’operazione di attraversamento del testo ma mette in opera un rituale concreto, capace di organizzare le esigenze dello spettacolo e quelle del pensiero dentro le emozioni delle parole. La sua affabulazione finale accompagna Colapesce, e lo spettatore, nel suo ultimo viaggio abissale.
[Immagine di copertina: foto di Desme Digital]