Arti Performative Dialoghi

“Il teatro è uno spazio di libertà in cui riempire i vuoti che comunque la carcerazione crea”: intervista a Renato Bandoli e a Enrico Casale

Renata Savo

Nell’ambito della quarta annualità del progetto Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, promosso sul territorio nazionale da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria, ha debuttato ieri sera e replicherà stasera, venerdì 27 maggio, alle 21.00 al Teatro degli Impavidi di Sarzana, lo spettacolo teatrale Tutto quello che sono, sviluppato dallo studio presentato nel settembre 2021 con il titolo Operine, che vede in scena gli attori-detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino” della Spezia. Lo spettacolo ruota attorno alla figura dell’attore Ettore Petrolini, emblema di un Teatro di Varietà che fu spesso preso di mira dalla critica per la sua apparente superficialità. Abbiamo intervistato Enrico Casale e Renato Bandoli, registi e conduttori che, insieme a Simone Benelli, hanno guidato il progetto di teatro in carcere promuovendo con i partecipanti (Luca Colli, Andrea Lombardi, Preng Doda, Marco Conti, Tornello Leonardo, Haitem Rammah, Wimin Rosario Lopez, Jose Paul Bravo Pazmino, Gennaro D’angelo, Valentin Marius Neacsu, Alessandro Vailatti, Salihovic Halid, Mirco Vasoli, Sandro Riviera, Emiliano Shota, Bartolomeo De Cola, Alice Parodi, Simone Benelli, Giovanni Franceschini) proprio il rovesciamento degli stereotipi legati a questo genere di teatro in auge negli anni ’20 del Novecento, e cercando, attraverso di esso, un aggancio con il presente. L’esperienza prova a integrare il teatro e la pratica artistica con la necessità di «riempire quei vuoti che comunque l’esecuzione della pena crea».

Sono ben 11 le fondazioni bancarie che sostengono il progetto Per Aspera ad Astra in cui s’inserisce lo spettacolo. Sempre più spesso, mi pare di constatare, sono le banche a finanziare la cultura e i progetti artistici: è stato sempre così o è una tendenza più recente? È possibile che prima della pandemia il cosiddetto teatro sociale fosse il più finanziato e sostenuto rispetto ad altri tipi di progetti teatrali, e che la pandemia, che ha promosso a livello istituzionale l’idea di un isolamento coatto, abbia rimescolato le carte e le priorità di finanziamento pubblico?

Renato Bandoli: Il progetto Per Aspera ad Astra nasce prima della pandemia, nel 2017-18, per volontà proprio del direttore generale di Acri, Giorgio Righetti. Acri è l’associazione nazionale delle fondazioni di origine bancaria, che ha voluto, sulla base dell’esperienza ultratrentennale di VolterraTeatro e della Compagnia della Fortezza, mettere a sistema non tanto il modello di Armando Punzo quanto la possibilità di interagire in maniera permanente e strategica con i diversi istituti di pena. Al progetto culturale hanno aderito così le diverse fondazioni bancarie che fanno parte della cordata. Noi abbiamo avuto delle interruzioni, ovviamente, all’interno delle varie carceri, perché la pandemia ha senz’altro aggravato certe situazioni. In compenso da parte delle fondazioni c’è stata molta più tolleranza verso il percorso fatto all’interno dei processi creativi.

Tutto quello che sono si è sviluppato da uno studio che è stato presentato nel settembre 2021, Operine… con un tragico sorriso sulle labbra. Siamo a maggio 2022. Cosa è avvenuto in questi mesi di lavoro e com’è stato lavorare nel contesto “difficile” della Casa Circondariale della Spezia? Quali sono state per voi le maggiori difficoltà e in che cosa vi è sembrato di sentirvi più agevolati in questo percorso?

Enrico Casale: “Agevolazione” è una parola molto difficile da usare in un contesto come quello della Casa Circondariale della Spezia. Le pene dei detenuti da scontare sono di solito medio-brevi, c’è un grande viavai. Il carcere è un po’ un porto di mare, perché per fortuna alcuni di loro vengono scarcerati, altri vengono trasferiti… Rispetto al primo studio di settembre è cambiato praticamente tutto il cast: il lavoro si è adeguato ai nuovi partecipanti al laboratorio, ai quali abbiamo fatto conoscere lo spettacolo realizzato in precedenza. Chiaramente, cambiando il cast, come succede sempre, muta anche la prospettiva della drammaturgia, perché le persone coinvolte sul palco sono diverse e a loro volta portano altre suggestioni e spunti creativi. Chi dunque ha visto lo spettacolo a settembre vedrà di sicuro qualcosa di differente, ma che rivive sempre sotto l’ala protettrice di Ettore Petrolini, detentore di una comicità che non si usa più ma che è estremamente raffinata, e differente da quella a cui i detenuti sono abituati.

Renato Bandoli: C’è anche da dire che del vecchio cast, essendo uscite misure alternative, due attori sono rimasti e continuano a lavorare con noi all’esterno: può continuare quindi questo rapporto teatrale anche quando non si è più detenuti.

È possibile immaginare quindi anche un “futuro” di questa esperienza?

Renato Bandoli: Sì, sicuramente. Alcuni di questi detenuti hanno contratto il virus della passione teatrale e vogliono continuare a lavorare con noi indipendentemente dal progetto Per Aspera ad Astra, che comunque vedrà già la sua quinta edizione appena finita questa che è la quarta.

Enrico Casale: Per esempio Marco Conti non è più ospite del carcere della Spezia ma si trova a vivere un’altra situazione, questo gli ha permesso di lavorare tutto l’anno con noi in teatro, quindi fuori dalla saletta prove. Ha incontrato per caso un nutrito gruppo di ragazzi diversamente abili, con cui lavoriamo da anni, in uno degli spazi che gestiamo, il Ruggiero a La Spezia, si è innamorato di questi ragazzi e per questo abbiamo cominciato a lavorare con lui e il gruppo, tentando un inizio di approccio verso una collaborazione. Noi crediamo che per una persona come Marco, al di là del suo passato ma per come è ora mentalmente e creativamente si possa aprire magari in futuro, sempre attraverso la formazione, un proprio percorso come pedagogo con i ragazzi diversamente abili. Queste sono le piccole conquiste che un progetto del genere può far realizzare.

Avete scelto di lavorare sulla figura di Ettore Petrolini che, come si diceva, incarna l’ideale di una comicità diversa, un po’ perduta, anche se a me, devo ammettere, fa venire in mente quella comicità un po’ strana e grottesca che ritroviamo su TikTok, per esempio nel fenomeno contemporaneo di Khaby Lame. Come mai proprio Ettore Petrolini?

Enrico Casale: Il parallelismo con la contemporaneità che fai è giustissimo. Io e Renato abbiamo chiaramente dei gusti, musicali anche, che sono un po’ più indietro nel tempo. Quando abbiamo fatto ascoltare la versione di Fortunello di Petrolini ai detenuti, che essendo anche più giovani sono più dentro il background contemporaneo, hanno detto che ricorda loro la ‘trap’: velocissimo, sconclusionato, politico anche, in un certo senso. Sicuramente da Petrolini è stata ereditata molta comicità contemporanea. I ragazzi sentono Petrolini come un personaggio che riescono a riconoscere. Per farli avvicinare di più, abbiamo mostrato molte volte come Gigi Proietti o Alberto Sordi – nomi che loro conoscevano attraverso la televisione – interpretavano Petrolini. Da lì li abbiamo portati a comprendere come nello spettacolo ci sono anche degli agganci con ciò che è stato Petrolini per i futuristi. Quella di Petrolini è stata una figura che, forse anche inconsapevolmente, ha rivoluzionato tutto, e non solo in Italia. Gordon Craig affermò che Petrolini era il vero inventore della biomeccanica non Mejerchol’d.

Renato Bandoli: Rispetto all’anno scorso, cioè a Operine, in cui aleggiava lo spirito di Petrolini, ovvero c’era la figura di Petrolini in quanto tale, quest’anno ci siamo focalizzati sulla sua personalità artistica. Petrolini era uno che non aveva studiato e che diceva «io guardo la strada». Aveva una grande sapienza pratica del teatro e tutto quello che ha inventato lo ha fatto contro l’Accademia. I critici all’inizio lo snobbavano e lo attaccavano, ma alla fine ne hanno riconosciuto il valore artistico. Il tipo di comicità di cui era portatore Petrolini, il famoso comico-grottesco, è proprio la cifra di lavoro che a noi interessa indagare con queste persone che non sono attori professionisti. Andiamo così a cercare nel rovesciamento dei luoghi comuni, tipici del linguaggio artistico di Petrolini. Penso ai suoi calembour, a tutte le sue iperboli linguistiche. Ci sembra più interessante e più vicino scavare in una realtà che può sembrare anche dolorosa per vederne i lati comici ridicolizzando tutto il nostro pensiero perbenista. È tutto lì: nel rovesciamento dei luoghi comuni. Può nascere la gioia, il divertimento. «Con un tragico sorriso sulle labbra», come ha mutuato Zavattini da Petrolini.

C’è in questo anche un parallelismo con le vite dei detenuti, perché devono rovesciare per se stessi i luoghi comuni associati al loro passato, cercare di uscire dallo stereotipo dell’essere tutti o buoni o cattivi. Questo discorso riguarda loro. Ma cosa vedremo in scena?

Renato Bandoli: Non c’è nessun biografismo. Non ci sono storie degli attori in scena, perché non ci interessa esporli attraverso le loro storie. Quello a cui stiamo cercando di avvicinarci è un oggetto artistico. Proprio il tipo di comicità di Petrolini svela l’artisticità nella ricerca tra le pieghe del reale di ciò che è nascosto, di qualcosa della realtà che altrimenti non vedremmo, e lo fa attraverso il comico, e per la precisione usando quella forma popolare che era il teatro di varietà dell’epoca di Petrolini, esaltato anche nel Manifesto del teatro di varietà (1913) composto da Filippo Tommaso Marinetti. Il lavoro con i detenuti avviene all’interno di una struttura concentrazionaria come il carcere, ma non abbiamo uno spazio teatrale. Usiamo la chiesa del carcere, e questo ci penalizza nel nostro lavoro. Eppure questo non ci riserva dal dire loro che il teatro è uno spazio di libertà in cui riempire dei vuoti che comunque l’esecuzione della pena crea. Lo scopo del laboratorio è di riempire questo vuoto attraverso il teatro, il gesto, la voce, i testi (di Petrolini, ma non solo). E questo è il tipo di approccio con gli attori-detenuti. Non siamo interessati alle loro biografie. L’importante è comprendere come una maggiore consapevolezza attraverso il teatro possa poi far crescere e maturare questi ragazzi. Il compianto Claudio Meldolesi, tra l’altro uno degli scopritori del lavoro di Armando Punzo, aveva scritto un saggio negli anni ’80 dal titolo Immaginazione contro emarginazione che affrontava proprio il problema del teatro in carcere e del teatro sociale in genere. Esperienze di questo tipo dovrebbero sempre fare leva non tanto sulle biografie degli attori, ma proprio su quel patrimonio di suggestioni, di visioni e immagini, che si possono avere ma che sono costrette in un rapporto con la realtà che è filtrato (spesso dalla televisione). Alcuni dei nostri attori-detenuti, che non leggevano, si sono avvicinati alla letteratura attraverso il teatro. È un fatto importante.

Immaginazione contro l’emarginazione, ovvero qualcosa di artistico contro qualcosa più legato a una funzione “terapeutica” o salvifica. A proposito di questa “artisticità”, per voi una domanda forse meno banale di quanto possa sembrare, date le condizioni complicate in cui voi artisti vi trovate a lavorare. Siete soddisfatti del risultato?

Renato Bandoli: Per il progetto, sì, siamo soddisfatti. Per i lavori concreti che facciamo, invece, siamo sempre insoddisfatti. Vorremmo sempre ottenere il meglio dai ragazzi e prima di tutto da noi stessi. Siamo anche crudeli, di quella crudeltà di cui parla Artaud, che affermava che la Verità è crudele, in quanto non è edulcorabile. E anche se restituzioni finali di tanti spettacoli che abbiamo fatto hanno incontrato il pubblico e la critica in maniera positiva, noi non siamo mai soddisfatti.

 



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti