Teatro di San Carlo // Dorian Gray
Quando un nuovo linguaggio o settore si mette alla prova con un “testo sacro” della letteratura – e quindi ne trae un film o uno spettacolo teatrale – il rischio è dietro l’angolo. Per arginarlo due sono le strade da intraprendere: cercare di restargli fedele il più possibile, restituendone ciò che i conoscitori dell’opera si aspettano; tradirlo completamente ma coscientemente, costruendo un altro universo dotato di regole proprie ma coerenti tra loro, che sia in grado di trasmettere l’essenza ma anche di fornire altre chiavi di lettura.
Purtroppo l’opera musical-teatrale “Dorian Gray – La bellezza non ha pietà” resta in bilico sul filo dell’ambiguità tra i due percorsi e, pur facendosi portatore di begli spunti, non riesce a convincere a pieno.
Un atto unico, di quasi un’ora e trenta, in cui tutta la narrazione è affidata a Federico Marignetti (salvo qualche piccolo inciso delegato ad una voce fuori campo) che dovrebbe interpretare il personaggio di Dorian Gray. Il condizionale è d’obbligo perché, se nei momenti cantati, ovvero il 90% della pièce, è sicuramente il giovane dandy a parlare in prima persona, nelle parti in prosa vengono indirizzati al pubblico anche dei veri e propri dialoghi tra Dorian e Basil Hallward oppure Lord Henry Wotton. Scambi che, però, che non trovano riscontro in alcun cambio di registro né attoriale né registico. Per fortuna i sovratitoli in inglese, per chi abbia familiarità con quella lingua, fanno un po’ da guida. D’altronde, bisogna dirlo, Marignetti nasce cantante. Bella voce e presenza, ma è palpabile la necessità di dover essere guidato meglio nella parte, di dover scavare più a fondo in un personaggio così noto e amato.
Al danzatore Marco Vesprini il compito di impersonare l’anima di Dorian. E anche qui la regia un po’ latita. I momenti in cui la dialettica tra i due è presente e significante sono la minor parte, eppure stiamo parlando di una connessione drammaturgicamente rilevante, soprattutto perché sono gli unici due corpi in scena. Il talento e la presenza scenica di Vesprini non vengono valorizzati a pieno, e il tutto si limita ad un commento “coreo-mimato” dei momenti salienti che alla lunga appare anche ripetitivo, perché probabilmente per la maggior parte improvvisato in modo didascalico. Non è un caso, infatti, che tra i credits dello spettacolo non figuri la voce “coreografie”.
L’impianto scenografico è notevole. Un cubo rotante dotato di scale, porte e uscite segrete diventa di volta in volta la stanza di Dorian, il teatro in cui si esibisce Sybil Vane, la metaforica prigione dove – intrappolando la sua anima per godere dell’eterna giovinezza – il protagonista finisce col condividere la dannazione in cui credeva di relegare unicamente l’altro sé. Giocando e spostando cornici di varie misure, sistemate a diverse altezze, il simbolo del quadro diventa anche uno specchio, oppure una trappola. Le videoproiezioni non riescono, invece, a penetrare il tessuto drammaturgico. Accompagnano visivamente, come durante i concerti. Vogliono stupire, ma con chi abbia familiarità con questo mezzo è fatica sprecata.
Insomma, questo Dorian Gray è ancora un bozzolo. C’è molto materiale, forse troppo, non adeguatamente calibrato e intessuto nella scrittura scenica, e il rischio è che al posto di una farfalla ci si trovi davanti ad una crisalide “freak” geneticamente modificata. Non è un musical, ma il protagonista non fa che cantare e, per quanto bella sia la sua voce, alla lunga stanca, anche perché lo stile dei brani non è molto vario. È giocoforza un monologo (parla un’unica persona) ma i testi recitati non supportano questa scelta né nella costruzione né nella resa. Non è uno spettacolo di teatro-danza, ma… Troppi ma. Troppe caratteristiche apposte per “far volume”, che diluiscono e imbrattano la volontà di partenza, facendole perdere di efficacia: la consapevolezza della dannazione di un mondo che premia l’eterna giovinezza e vede nella bellezza esteriore l’unico valore, il cui rischio era già stato scoperto e scavato da Oscar Wilde secoli prima dell’avvento dei selfie-stick e dei filtri per le foto social. Davvero troppi fronzoli per entrare empaticamente in contatto con Dorian. E se un’opera che voglia ragionare sulla pericolosità dell’importanza data alla bellezza si limita a portare all’estremo la semplice resa estetica, forse qualcosa è andato storto durante il processo di realizzazione.