Teatro Presente affronta la difficoltà di capirsi: “un mondo, il nostro, che non educa all’empatia”
Domani, venerdì 27 aprile, si terrà il penultimo appuntamento della terza edizione di Mutaverso Teatro, di cui Scene Contemporanee è mediapartner. Dopo Fortebraccio Teatro, Dimitri Canessa, Dispensa Barzotti, Marta Cuscunà, Tino Caspanello e Sotterraneo, è la volta di Teatro Presente e del suo “The hard way to understand each other” (di cui tra le nostre pagine, in tempi non sospetti, si parlava anche qui).
Lo spettacolo va in scena, come di consueto per gli appuntamenti di Mutaverso Teatro, all’Auditorium Centro Sociale di Salerno, ed è una delle quattro prime regionali programmate all’interno della stagione. Anche questo, di cui firma progetto e regia Adalgisa Vavassori, è uno spettacolo pluripremiato: ha vinto il Premio Scintille 2016, quello Giovani Realtà del Teatro 2016, ed è stato selezionato nel 2017 dal gruppo Visionari al Kilowatt Festival di Sansepolcro. Frutto di una scrittura collettiva, “The hard way to understand each other” narra con un linguaggio originale, e che fa a meno della parola, l’incomunicabilità vigente all’interno dei rapporti umani, la difficoltà di stare assieme in un’epoca dominata da dispositivi tecnologici e forme di comunicazione che ostacolano il confronto sincero con l’altro. Abbiamo chiesto alla regista di Teatro Presente, compagnia nata nel 2011 dall’incontro con il drammaturgo e regista argentino César Brie avvenuto all’interno del Cantiere di formazione promosso da ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, di raccontarci com’è stato affrontato il problema dell’incomunicabilità, estremamente attuale, illustrandoci anche quanto esso si rifletta all’interno di un sistema produttivo stretto, delicato e complesso come quello teatrale.
The hard way to understand each other è un titolo emblematico che rispecchia totalmente il nostro presente, o, come ci piace sperare, solo una parte di esso. La difficoltà di capirsi, di certo, deriva da una difficoltà di comunicare, ma questa problematica, a dir poco lineare e semplice, sembra ormai divenuta un circolo vizioso di cui non se ne riconosce più il principio. Secondo voi c’è un elemento, una causa scatenante, nella nostra epoca, che ha messo in moto questa costante difficoltà di comunicare tra noi?
Non credo esista una principale causa scatenante, di sicuro molte concause. Prima di tutto possiamo “permetterci” di portare all’attenzione queste difficoltà perché ci troviamo in una parte del mondo che non lotta quotidianamente con la sopravvivenza. Credo anche che la cultura dell’individualismo, esaltata e fomentata dal consumismo, un po’ contribuisca a questa sensazione di isolamento. Non esiste, per esempio a scuola, una formazione ai sentimenti e a come comunicarli agli altri; ai bambini si insegnano principalmente nozioni, avvenimenti passati, ma non come poi cavarsela nelle relazioni quotidiane. La tecnologia, spesso, è tacciata come la causa principale di questa difficoltà di comunicare, ma io credo che sia usata per rispondere ad un bisogno di fuga o protezione preesistente.
Come si può migliorare questa situazione di incomunicabilità e incomprensione, soprattutto nelle nostre generazioni che ne sono di fatto portatrici? La vostra risposta teatrale sembra efficace e, soprattutto, nella sua peculiare forma scenica, comunicatrice dell’urgenza di riflettere su questo problema. C’è, secondo voi, una soluzione?
Crediamo che una soluzione esista, ma che non sia nostro compito fornirla. L’obiettivo dello spettacolo è portare in scena ciò che abbiamo osservato rispetto a questo tema. È stato molto importante per noi fermarci un passo prima di arrivare a un giudizio, o a una lezione del tipo “si dovrebbe fare così”: chi siamo noi per dirlo? Ognuno può trovare dei modi per cambiare alcune proprie dinamiche, che sia coerente con se stesso e con il proprio modo di vivere. Del resto, tutto quello che portiamo in scena parte anche e soprattutto dall’osservazione di noi stessi, e lo spettacolo è nato proprio in un momento in cui in compagnia comunicare tra noi era complicato e a tratti doloroso. Nonostante tutto il lavoro di ricerca e di osservazione delle dinamiche non possiamo dire ugualmente di essere “risolti”, sicuramente però siamo un po’ più consapevoli e questo è già un grande passo. Se ogni spettatore riuscisse a riconoscersi in una scena proposta o a riconoscere qualcun altro, e quindi diventare consapevole di un proprio automatismo o per un attimo mettersi nei panni di un altro, per noi sarebbe già una “vittoria”.
Questo è il vostro primo lavoro senza la direzione del drammaturgo e regista argentino César Brie, al quale si deve, fra l’altro, la formazione della vostra compagnia nel 2011, che ha prodotto, poi, spettacoli molto apprezzati come Il vecchio Principe, InDOLORE, La mite ed Orfeo ed Euridice. Come vi siete trovati, ora, ad affrontare da gruppo indipendente le scelte, dapprima drammaturgiche, poi registiche e di messa in scena, per questo, potremmo dire “totalmente vostro”, The hard way to understand each other? Quali esigenze creative e quali sforzi comunicativi tra voi avete dovuto affrontare e compiere nella realizzazione dello spettacolo?
La cosa più semplice è stato il lavoro in sala prove. Io, attrice della compagnia, ho proposto il tema e alcuni punti fermi che avrei voluto mantenere nello spettacolo. I miei colleghi e compagni hanno sposato con me il progetto e siamo partiti come abbiamo fatto negli anni precedenti, con improvvisazioni e creazione di immagini. È stata la mia prima regia, il momento in cui ero sola, fuori scena, a prendere alcune decisioni conclusive: è stata dura, ma la fiducia che hanno riposto in me è stata fondamentale nel superare alcuni momenti cruciali del lavoro. La cosa più complicata è ed è stata, invece, creare interesse all’esterno per il progetto. Abbiamo vinto alcuni premi (Scintille 2016, Giovani Realtà del Teatro 2016, Selezione Kilowatt Festival 2017, Semifinalisti Inbox 2018) e questo, oltre a darci un grande slancio, ci ha aiutato dal punto di vista produttivo, ma senza avere il nome di Brie devo dire che la circuitazione dello spettacolo non è altrettanto semplice. Quindi, forse, gli sforzi comunicativi maggiori sono tra noi e il circuito teatrale, piuttosto che internamente.
La vostra prima regionale in Campania è a Mutaverso Teatro, una realtà giovane e in crescita, proprio come la vostra Compagnia, grazie al dialogo tra il direttore artistico di Mutaverso Teatro Vincenzo Albano e NEST – Napoli Est Teatro, dove vi esibirete nel weekend con La mite. Quanto è importante secondo voi, nella situazione teatrale italiana contemporanea, il dialogo reale e costruttivo tra le diverse realtà produttive e, conseguentemente, di esse con quelle creative?
È fondamentale, è il cuore pulsante. Per noi come artisti, creare uno spettacolo ma non avere la possibilità di mostrarlo al pubblico, attraverso le realtà teatrali esistenti, è molto frustrante.
Siamo molto contenti di questo incontro con Vincenzo e del modo in cui queste due realtà hanno lavorato per portarci in Campania, sono questi incontri che ripagano gli sforzi fatti. Esistono a mio parere ancora pochi momenti di scambio tra compagnie e realtà produttive, ma il fermento c’è e mi auguro che arrivino, prima o poi, anche i mezzi per poter far circolare sempre di più idee e spettacoli a favore dell’arricchimento reciproco.