Il teatro di Eugenio Barba che racconta la folle ‘metamorfosi’ di un danzatore
Cosa accade se una pietra miliare della letteratura novecentesca incontra il genio teatrale di Eugenio Barba? Il celebre regista pugliese, autore del Manifesto del Terzo Teatro e a cui va il merito di aver aperto una strada decisiva per il teatro contemporaneo del Novecento, dopo una preparazione di ben sei anni di lavoro, porta in scena Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, prima e unica regia firmata dall’artista al di fuori della sua storica compagnia Odin Teatret.
Questo lavoro di Barba, che dal 24 settembre al 3 ottobre scorso ha riempito le sale del Teatro Quirino di Roma, conferma il suo teatro fortemente antropocentrico e la sua ricerca imperniata sul corpo e sulla sua potenza espressiva, sulla sua capacità di essere presente sul palcoscenico grazie alle sole doti fisiche, vocali e di movimento.
La genesi dello spettacolo va individuata in un soggetto, quello del racconto dello scrittore boemo Franz Kafka La metamorfosi, già autonomamente ricco e completo che, messo sulla scena, potrebbe benissimo bastare a sé stesso per dar vita ad un prodotto teatrale. Ma Barba, oltre a firmare regia e drammaturgia insieme a Julia Varley e Lorenzo Gleijeses (unico interprete in scena), si serve degli oggetti coreografici di Michele Di Stefano, della consulenza drammaturgica di Chiara Lagani, del suono e delle partiture luminose di Mirto Baliani per un progetto in cui prende corpo e voce l’alienazione dell’uomo kafkiano.
Non è un caso che per riprodurre il disagio di Gregorio, omonimo protagonista del racconto di Kafka, venga messo in scena un danzatore che, in qualche modo, interpreta sé stesso e il mestiere del danzatore con tutti gli psicologismi, riferimenti autobiografici compresi, e le nevrosi che questo comporta, trasportando lo spettatore in un raffinatissimo contesto metateatrale. Il danzatore Gregorio, in vista di un importante debutto, resta prigioniero della sua coreografia e della sua ricerca artistica in una reiterazione maniacale di passi e movimenti. Analogamente resta prigioniero dei suoi oggetti coreografici. Vari elettrodomestici sono oggetti meccanici che, come la sua danza, fusione magistrale di voce e gesto dinamico, restano completamente avulsi dalla realtà.
I tic nervosi, la voce carica di pulsioni e, soprattutto, la ripetizione compulsiva e ossessiva dei gesti e delle partiture coreografiche parlano chiaro. La danza, con la mania di perfezionismo che ne consegue e che affligge ogni danzatore, fa compiere a quest’ultimo un’operazione di distacco profondo dal reale, una frattura insanabile tra il mondo esterno e concreto e quello interiore ed emotivo.
Spingere al massimo i risultati del suo lavoro coreografico è, infatti, per il danzatore, una metafora per distruggere i propri limiti e superarli. Dopo aver rimbalzato follemente, seguito da un instancabile quadrato di luce, Gregorio resta quasi freezato in stasi profonde, contorcendosi a terra come un insetto agonizzante e bramando le approvazioni mancate, quella del Maestro e quella del Padre. Proprio il riferimento alla Lettera al Padre di Kafka diventa un lungo messaggio vocale Whatsapp pieno di rabbia e dolore. La sua danza di scarafaggio è instancabile, mortale quanto indispensabile per l’apporto di energia vitale di cui necessita il danzatore. Sorge spontaneo il riferimento al fenomeno tutto meridionale del tarantismo, della danza provocata dal morso della tarantola. Si danza per compiere un rito, per trovare la salvezza ma anche la morte. Gregorio insegue sé stesso, ricerca la sua vera identità e per farlo deve necessariamente distaccarsi dal mondo borghese e predefinito della sua famiglia, dalla relazione con la sua compagna, dagli affetti, dal mondo. Rincorre forse un’idea di Super Uomo che però, per poter venire al mondo, deve prima distruggere l’uomo che lo precede attraverso un esasperato nichilismo. E la danza del teatro di Eugenio Barba racconta questa metamorfosi proprio attraverso la follia insita nella danza stessa.