Arti Performative Focus

Teatro del Carro // Le verità di Medea

Giovanna Villella

Andato in scena al TIP Teatro di Lamezia Terme per la XX edizione della stagione RiCrii, dedicata alla drammaturgia contemporanea e diretta da Dario Natale, Le verità di Medea con Anna Maria De Luca, regia di Luca Michienzi e suoni dal vivo di Remo De Vico, una produzione Teatro del Carro Badolato (Catanzaro).

“Medea la barbara, la straniera, la diversa, la madre, la moglie, l’assassina, l’infanticida, la strega o la guaritrice. Quale Medea?”

Partendo dalla più tradizionale versione del mito di Medea, quella di Euripide, passando poi per Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, con contaminazioni di altri significativi autori moderni quali Patrizia Filia, Christa Wolf e altri frammenti poetici, Anna Maria De Luca e il regista Luca Michienzi portano in scena un personaggio dolce, sensibile, forte contro l’immagine classica di Medea “donna della morte”. Così, deprivata da ogni suo carattere definitivo ed irreversibile, la tragica grandezza di questo personaggio cede il posto a una umanità insicura, continuamente turbata.

Lo spazio scenico, scarnificato e rilucente d’oro, rappresenta simbolicamente la regalità del luogo e si collega concettualmente al vello, ma ricorda anche le coperte termiche fornite ai migranti salvati dal mare, suggerendo lo status di Medea che rimane l’oscura straniera e proiettando la riflessione sul mito nella cronaca attuale; laddove l’uso di costumi di foggia contemporanea – una sorta di tuta da lavoro bianca coperta da una cerata trasparente – contribuisce a creare un alone atemporale, pur mantenendo un legame con l’antica Grecia attraverso la benda bianca con cui le sacerdotesse si legavano i capelli.

Il paesaggio sonoro, creato da Remo De Vico con una originalissima strumentazione ricavata da materiale di recupero, sembra ritmare la costruzione dei gesti e della dizione orchestrata dalla sapiente regia di Luca Michienzi la cui complessa riscrittura del mito significa rendere il passato disponibile a un dialogo con il presente.

Straordinaria, ambigua, mobilissima, capace di grandi mutamenti che vanno dalla ferocia a una luminosa bellezza, dallo sguardo fosco alla dolcezza, dalla voce roca al sussurro, dal pianto alla risata infernale Anna Maria/Medea, scalza, si muove – all’inizio – con voce sommessa, piena di paure, di ossessioni, di sinistre premonizioni riavvolgendo il filo della sua vita anche se “il dono della veggenza non è sempre un dono ma può essere una maledizione”.

Ella non nega né cancella tristezza e infelicità. Le esalta, anzi, sostenendole con una energia vitale ma controllata che la porta a mutare i pochi elementi scenografici: un baule che, all’uopo, si trasforma in tavolo, talamo, piedistallo; un secchio, un contenitore-urna, una sorta di grande sole raggiato simile a un ostensorio.

Nella Colchide era un’amazzone, appartenente – quindi – a una società matriarcale, magica, viscerale che entra in conflitto con il mondo di ordine e di legge di Creonte. E questo suo mondo primitivo emerge qua e là attraverso le sue parole e disseminando indizi sulla scena: le boccette e un paiolo per i filtri magici, i segni di biacca e di bistro sul viso come gli antichi guerrieri, i poveri resti del giovane fratello Absirto sparpagliati nei campi, il vello d’oro…

Dotata di arti magiche, di quei riti che possono insediare la mascolinità, qui rivendica la sua “magheria” non come potere soprannaturale ma come frutto di quella conoscenza che le è stata trasmessa da Circe, sua zia.

Medea una e multipla, onnipotente e intelligente, sulla scena non è né maga né amante ma una figura femminile che ha accettato di diventare donna incarnandone la fatica di esistere e la tragedia del vivere.

La sua feritas, la sua “animalità” si traduce, per amore, in un corpo che si è adattato a diventare femminile, a vivere una vita muliebre e la maternità, esemplificata, quest’ultima, in una pancia/marsupio piena di cenci insanguinati, a sottolineare un sentimento di amore e protezione nei confronti dei figli e il legame totalizzante attraverso il loro ritorno simbolico al ventre materno. Arriva – perfino – a negare l’infanticidio “Io non ho ucciso i miei figli. Tu, il tuo abbandono li ha uccisi e ora vuoi fare sentire me colpevole dei tuoi errori. Meschino, meschino…”. Un j’accuse nei confronti del marito e una dichiarazione d’amore nei confronti dei figli anticipato, nel prologo, da un brano tratto da Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci e che sembra quasi chiedere scusa a quel pensiero “Una femmina mi sarebbe piaciuta” che Corrado Alvaro fa pronunciare alla sua protagonista ne La lunga notte di Medea.

Nel suo monologo, interrotto qua e là dal confronto di Medea con gli altri personaggi (invisibili) della tragedia, Giasone, il mitico conquistatore del vello d’oro che sposerà Creusa per realizzare la sua ascesa al potere, perde la sua aura d’eroe “Giasone senza Medea non è che la metà di un canto di gloria” e diventa un uomo pieno di paure e di soggezione.

E nella paura di Giasone si riflette e si amplifica la paura di un intero popolo che teme lo straniero, ancor di più se è donna, dissenziente e non addomesticabile al modello culturale di riferimento perché “una donna libera, non assoggettata al patriarcato, fa paura”. E qui, ancora una volta, il mito illumina il presente. Medea non è una donna docile, ma sensuale e ribelle che sfugge al controllo dell’uomo/degli uomini rifiutando di subire la prepotenza maschile nel corpo e nell’anima e prendendo le distanze dal quel sistema di valori che permea la cultura greca maschilista a cui lei, nonostante tutto, ha cercato di conformarsi per amore di Giasone.

La sua pericolosità, quindi, non deriva tanto dall‘essere considerata terribile e temibile per i crimini che le vengono ascritti quanto dall‘irriducibilità del proprio io, dal suo essere straniera e inflessibile alle ragioni del potere ma non rinuncia al suo ultimo grido di dolore di donna innamorata, tradita, ferita e abbandonata: “Hai annientato ogni mio bene, il mio sorriso, la mia voglia di gioire, la mia voglia di vivere, la mia capacità di compatire… Perché? Non lo capisco. Per amore? Il prezzo dell’amore degli uomini è troppo caro…”.

“Io non ho ucciso Absirto… Io non ho ucciso Pelia… Io non ho ucciso Creusa… Io non ho ucciso i miei figli.”
Ecco le “verità” di Medea: ella declina la responsabilità di ogni assassinio, nonostante si sia fatto di lei il capro espiatorio perfetto, e rifiuta la sua identità di personaggio tragico cercando di sfuggire alla sorte che il mito stesso le ha assegnato.

In una sorta di sostituzione vicaria che la trasforma da carnefice in vittima sacrificale, Medea sceglie il Bene come via per la libertà, senza ottenere, tuttavia, da questa scelta alcun beneficio né per sé né per i suoi figli. Ormai sola si prepara all’esilio, in attesa di una voce che la liberi dall’eternità dei crimini.

E nel finale, come una madonna precristiana inginocchiata ai piedi del sole raggiato, eretto a mo’ di croce, intona i magnifici versi di Bambina mia, un moderno canto d’amore di Mariangela Gualtieri che sancisce la sua redenzione, almeno quella teatrale.

 



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