Cinema Il cine-occhio

Sto pensando di finirla qui

Stefano Valva

L’effetto Kulesov fu l’esperimento che dimostrò come il montaggio potesse essere la tecnica essenziale della forma cinematografica, per l’evoluzione di quella che uno degli allievi proprio di Lev Kulesov, ossia Sergej M. Ejzenstejn, definirà “l’arte sintetica”. Il deus ex machina dei formalisti, seguendo delle teorie allora in voga in psicologia cognitiva (vedi quella del comportamentismo di John Watson) ed attraverso una giustapposizione di inquadrature secondo lo schema stimolo-risposta, scoprì che non è il singolo frammento, bensì è la relazione tra le immagini che crea nel cinema la semantica, e di conseguenza il doppio, ossia il rapporto magnetico tra l’opera e lo spettatore (gli studi sociologici postumi di Edgar Morin). 

Cosa c’entra in un focus, uno dei più celebri fenomeni della storia del cinema, avvenuto negli Anni ’20?

Non solo per citazione accademica, perché l’effetto Kulesov è l’incipit del nuovo film – prodotto da Netflix – scritto e diretto da Charlie Kaufman, ossia Sto pensando di finirla qui, adattamento dell’omonimo romanzo di Iain Reid. 

L’incipit – oltre ad essere affascinante e curioso – è un archetipo funzionale per l’essenza dell’opera, poiché essa è costruita principalmente su: punti di vista; immagini-cristallo tra realtà, pensiero ed immaginario; relazioni tra le sequenze e lo spettatore, che creano anche una sorta di montaggio ingannevole. Molteplici elementi semantici, che il pioneristico studio sovietico rappresentò (in forma ridotta, “grezza” ed immediata) in una sorprendente prima volta. 

Lucy è una ragazza che sta meditando sul rapporto sentimentale con Jake, il quale la porta in auto verso la casa dei genitori, per presentarla alla famiglia. In viaggio – fra strade dissestate ed innevate – Lucy penserà costantemente al fidanzamento, ove solo noi possiamo sentire la voce della sua coscienza, che ci comunica i pensieri più privati (tecnica evolutiva di un altro cruciale passaggio storico negli Anni’20 della storia del cinema, ossia quello dal muto al sonoro). 

Lo spettatore viene posto in una posizione privilegiata – un po’ come in molti film celebri di Alfred Hitchcock – dato che conosce meglio dei personaggi, la condizione psicologica di Lucy, e gli intenti futuri. Eppure, Kaufman mantiene lo stesso quello che il maestro del brivido definiva – e allo stesso tempo ripudiava – come whodunit, ossia quella tecnica di scrittura che produce un estenuante dubbio sulle sorti della trama e un’attesa in vista di una sorpresa finale; dato che la digressione psicologica della protagonista è instabile e contraddittoria, ancor di più dubbiosa, appunto, quando davanti a lei si alternano la realtà e delle visioni tra immaginario e/o previsione del futuro, rendendo la comprensione dello spettatore opaca per buona parte del minutaggio. 

Il dubbio e il relativo inganno (per afferrare quest’ultimo aspetto, dovete solo godervi l’opera on demand), architettati da Kaufman e dal romanzo (anche se racconto e film si discostano in alcuni momenti) rendono Sto pensando di finirla qui un’opera cinematografica originale, visionaria, introspettiva ed onirica, ma allo stesso tempo contorta (che per le pellicole non è sempre un difetto, basti pensare all’attuale Tenet di Christopher Nolan), e che ha la colpevolezza – seppur involontariamente – di far distaccare lo spettatore dalle azioni e dai pensieri dei personaggi, in virtù delle sensazioni che fuori-escono in post-visione. 

L’effetto Kulesov crea enfasi, nel momento in cui lo spettatore può sia relazionarsi, sia anticipare gli sguardi e le emozioni del personaggio filmico. Non può avere lo stesso risultato, se il pubblico viene costantemente confuso, e se inoltre non sa su quale figura focalizzarsi o con la quale costruire un’empatia (ritorna di nuovo Hitchcock, quando profetizzava che non è l’effetto sorpresa, bensì è la suspense a creare un vortice di emozioni, che perdura per l’opera). La sorpresa in sintesi è momentanea, la suspense invece è un lungo percorso con intensità ascendente. 

Nonostante ciò, il montaggio parallelo e dell’inganno architettati da Kaufman scatenano angoscia, inquietudine e tragicità. Le visioni oniriche, non sono né risolutive, né speranzose per i personaggi (forse creano solo fascino), di sicuro sono ben espresse, o meglio, derivate dalle pulsioni del desiderio, da archetipi su di una vita immaginaria, da un Io potenziale, dalla ricerca di un futuro e di una sorte differenti. 

Il plot seppur diviso da scene e da inquadrature che per buona parte sono sconnesse, non fa arenare l’opera, la quale recupera in maniera calcolata tutti gli elementi del decoupage visivi e non, espliciti e impliciti, rappresentati e idealizzati. Sto pensando di finirla qui è un labirinto della psiche (non così visionario come in un’opera recente, ossia Siberia di Abel Ferrara), ove lo spettatore più che trovare l’uscita come il Danny di Shining, deve concentrarsi sul comprendere la vera natura dei pensieri, non delle azioni. Un viaggio anche della memoria in relazione al cinema, per una decriptazione delle immagini-tempo e per una complicata razionalizzazione del caos dell’esistenza: realtà, affetti, immaginazione, sogni, paure, vissuto e non vissuto. 

Se è stato apprezzato Se mi lasci ti cancello, fisiologicamente verrà apprezzata anche la terza pellicola da sceneggiatore e regista del cineasta americano, non senza riserve o critiche, in primis per una citata componente emozionale, che Sto pensando di finirla qui senz’altro include, ma non è persistente come nel cult diretto invece da Michel Gondry. 

Ad ogni modo, questa è l’opera più personale di Kaufman, più rappresentante del suo cinema e del suo modo di scrivere ed adattare le storie, della ricerca perenne sul come trasportare al meglio i pensieri in immagini, i sogni in realtà, la vita desiderata, sfacciatamente visibile come quella vissuta. E poi, quelli dell’autore statunitense non sono i sogni/le visioni puramente affascinanti e nostalgici (che fungono da illuminazione sul presente), ossia quelli per esempio di Midnight in Paris di Woody Allen, assomigliano di più a delle mancanze, a delle recriminazioni, a dei sottili ma allo stesso tempo corposi rimpianti, con i quali ogni persona deve sfortunatamente conviverci (sviluppando inconsapevolmente una rassegna mnemonica dei contenuti manifesti e latenti sul desiderato, sul non raggiunto e sul non avuto) fino alla fine.  


  • Diretto da: Charlie Kaufman
  • Prodotto da: Anthony Bregman, Charlie Kaufman, Robert Salerno, Stephanie Azpiazu
  • Scritto da: Charlie Kaufman
  • Tratto da: "Sto pensando di finirla qui" di Iain Reid
  • Protagonisti: Jesse Plemons, Jessie Buckley, Toni Collette, David Thewlis
  • Musiche di: Jay Wadley
  • Fotografia di: Lukasz Zal
  • Montato da: Robert Frazen
  • Distribuito da: Netflix
  • Casa di Produzione: Likely Story, Projective Testing Service
  • Data di uscita: 04/09/2020 (Netflix)
  • Durata: 134 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese

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