Cinema Festival

Still-lifes

Stefano Valva

Le pratiche della perversione – attraverso un culto feticista del corpo – hanno radici secolari. Senza dilungarsi in un excursus – che è invece soltanto propedeutico ad un’introduzione dell’opera oggetto di recensione – le pratiche estreme hanno tradizioni presso che medievali, dato che gli allora dogmi cattolici, profetizzavano che la sofferenza e/o la mutilazione del corpo facessero avvicinare empaticamente e simbioticamente l’uomo a Dio, ergo alle sofferenze della vita terrena di Gesù.

Oggi le dinamiche sono abbastanza diverse, e lo notiamo (in parte) attraverso la visione dell’ultimo documentario di Filippo Ticozzi, ossia Still-Lifes, presentato in concorso nella sezione LineaDOC del festival Linea D’ombra. Il regista, per l’appunto, in alcune sequenze inquadra in primo piano dipinti del rinascimento e del manierismo, che raffiguravano le pratiche sul corpo di celebri devoti alla religione o Gesù Cristo e i santi in momenti di martirio, i quali ebbero nella rispettiva esistenza terrena delle sofferenze, in primis fisiche.

Eppure, il richiamo religioso del regista ha ragioni più cronologiche, più storiografiche, più per scopi citazionistici che tematici, dato che il documentario analizza la pratica del bondage, soprattutto per come viene razionalizzata nel mondo orientale, in primis in Giappone.

L’opera è per lo più visiva che dialogica, quasi ogni sequenza è caratterizzata dall’inquadratura di questi corpi (nella maggior parte delle volte della compagna del protagonista. Quest’ultimo, è un cultore di tale mondo), che vengono legati con le corde, proprio perché la pratica si basa su dei momenti orgasmici da provare, attraverso l’immobilizzazione fisica del partner, incapace di effettuare – secondo un’arte dell’intreccio delle corde strutturata ad hoc – qualsiasi tipo di movimento.

Diviene importante tra l’altro, anche la sfumatura sull’utilizzo dell’informatica e dei social network, i quali divengono i mezzi di riproduzione e di pubblicizzazione, come lo erano i dipinti o i racconti orali nei secoli precedenti. Ciò pone anche un’inevitabile spaccatura, tra una pratica che all’epoca era solamente di natura religiosa, ed un’altra odierna, caratterizzata principalmente dalla ricerca della perversione, della diversità, dell’anticonvenzionale, del rinnovamento dell’atto sessuale, standardizzato dai primordi dell’umanità. Quindi il bondage nel documentario di Ticozzi si collega al mondo della pornografia, della perversione tramite internet, della fruizione, dell’estetica, e di un metodo inverso col quale apprezzare la bellezza e le capacità del fisico.

D’altronde, tutti i contorni tematici, filosofici, storici e psicanalitici vengono abbastanza tralasciati, dato che la camera vuole esclusivamente soffermarsi sulle varie fasi della perversione corporale, analizzando in primo piano o con riprese zoomate ogni attimo del bondage orientale, insieme alle sensazioni, alle emozioni, alla ricerca del dettaglio e della novità, sia di chi lo esegue, sia di chi se lo gode attraverso gli sguardi, come un pubblico ammaliato.

Una ricerca spasmodica ed ossessiva delle potenzialità e dei misteri del corpo umano, che diviene quasi un’estremizzazione dello studio sulla corporeità, che per esempio dal dopoguerra hanno cominciato ad effettuare le correnti teatrali – dal living theatre ad altri – con ricerche e finalità totalmente diverse per canoni artistici, eppure ove c’è come protagonista il corpo, in tutte le fattezze e i movimenti possibili.

Still-Lifes è senza dubbio un’opera con la quale è difficile approcciarsi, ove è complicato comprenderne le motivazioni, l’analisi, gli studi, per il suo essere una lente d’ingrandimento su qualcosa di così di nicchia, tanto curiosa, quanto fastidiosa per un pubblico medio. Eppure, rimane lo stesso un documentario singolare, che affronta temi e mondi poco conosciuti, attraverso le immagini in forma cinematografica; senza alcun tipo di pregiudizio, perché lo scopo di un film e in primis di un documentario, è quello di mostrare e non di giudicare, è quello di consegnare conoscenza attraverso immagini pure, mettendosi nei panni di chi pratica delle azioni, le quali per essi sono indispensabili e routinarie, per l’appagamento della sfera emotiva. Per quelle persone il mondo del bondage è vita, perché non riescono a essere attratti dal necessario, dall’ordinario, dal comune, dalla più semplice azione, che non comporti alcuna ricerca od alcuna estremizzazione, in riferimento non solo all’ossessione verso il corpo, ma anche verso una ricerca continua delle innumerevoli potenzialità della psiche.



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