Cinema Il cine-occhio

Stanley Donen (1924-2019)

Stefano Valva

Gli Anni ’30 -‘40 furono il grande periodo della Hollywood classica, nella quale l’evoluzione dei generi cinematografici si fece più serrata, spaziando dal noir al western, dalla slapstick comedy al musical. Proprio quest’ultimo genere, in quel momento storico, fu uno dei più sperimentali; il musical nel cinema già esisteva in forme primordiali agli inizi della settima arte, sia a livello estetico e tecnico (durante l’epoca del muto, nei cinema, le orchestre suonavano dal vivo gli spartiti musicali scritti per le scene del film), sia come prodotto filmico, seppur non costituiva ancora un vero e proprio genere (come lo intendiamo oggi), bensì soltanto una semplice raffigurazione in pellicola delle opere e/o dei concerti musicali.

Durante questi due decenni la “musica cambia”, e grazie a tante figure registiche, autoriali e produttive della Hollywood pronta a conquistare in toto il fiorente mercato cinematografico, il cinema musicale diventa una vera e propria osmosi fra le due arti, costituendo appunto il musical, quello con i balli e i canti nelle strade, quello dalla maestosa e affascinante scenografia, e quello dai plots su storie d’amore e patriottismo.

Stanley Donen è stato uno di quegli autori che ha cambiato totalmente il volto del musical nel linguaggio cinematografico classico, essendo anche un ponte diretto con un nuovo modo di intendere e fare cinema in America. Ex-ballerino e coreografo, come tanti grandi autori del periodo classico, fra i quali il formalista russo Sergej M. Ejzenstejn, riuscì anche a sviluppare egregiamente la scenografia dei suoi film (grazie anche alla collaborazione con Gene Kelly), che come accennavamo, è una delle componenti visive fondamentali per pellicole di questo tipo.

I suoi esordi furono caratterizzati negli Anni ’40 da grandi scenografie e coreografie per pellicole di svariati registi dell’epoca. Al tramonto del grande decennio classico, Donen esordì come regista con l’indimenticabile film On the town (Un giorno a New York), che insieme al successivo, probabilmente il più famoso, Singing in the rain, cambiano totalmente la narrazione dei musical, con il quale, come abbiamo visto in questi anni con film come La La Land di Chazelle, che ha un forte richiamo verso il film di Donen, i balli vengono portati nelle strade cittadine e fuori dai set, e la musica imbastisce un rapporto profondo con la realtà ambientale e sociale che la circonda.

Singing in the rain diventa un cult del cinema classico hollywoodiano, un film epocale, senza tempo e senza saturazione, un pilastro dell’immaginario grazie alle sue scene e alle sue musiche, che saranno di influenza narrativa e/o anche di uso omaggiale per tanti autori postumi.

Queste due pellicole, oltre a consolidare un nuovo genere, e ad accrescere il mercato cinematografico hollywoodiano, segnano allo stesso tempo anche un allontanamento dal puro classicismo, in chiave sfacciatamente nostalgica, come nel Viale del tramonto di Wilder, che approfondisce l’epocale e doloroso passaggio fra cinema muto e cinema sonoro, ripreso oltretutto in chiave postmoderna e/o neo-classica anche in qualche film dei nostri giorni, come The Artist di Michel Hazanavicius nel 2011.

Successivamente, Donen non si fossilizza solamente sui musical, e dopo aver raggiunto una grande maturità come autore cinematografico, si dà anche alle commedie definite sofisticate, e a pellicole di pura impostazione teatrale; teatro che insieme alla musica, costituiva una delle sue più grandi passioni personali.

Un esempio esemplificativo del suo modo di sviluppare il genere comico, è rappresentato, fra gli altri, da L’erba del vicino è sempre più verde, un film sottile, ironico e a tratti satirico, con la presenza di un divo come Cary Grant.

La sua appena citata passione per il teatro, l’ha portato a conoscere anche l’amore romantico della sua vita, quell’Elaine May, sceneggiatrice del Laureato di Mike Nichols, e regista attiva non solo al cinema, ma appunto anche a teatro.

Seppur Donen si trovi non solo al calare dell’era classica di Hollywood, ma anche durante l’epoca, per così dire, moderna del cinema americano, la sua vena nostalgica di musical d’altri tempi riaffiora anche nelle pellicole degli Anni ’70-’80, in cui mischia un notevole sviluppo delle tecniche cinematografiche, adeguandosi perfettamente ai linguaggi estetici e narrativi a lui contemporanei, ad una grande volontà di non abbandonare quegli elementi contenutistici, che hanno portato Hollywood ad avere i primi capolavori storici.

Nel 1984 sembra terminare definitivamente la sua carriera con la pellicola Blame it on Rio (Quel giorno a Rio), che viene considerato da gran parte della critica, come il film comico più sottotono in carriera, alcuni dicono addirittura volutamente.

Nonostante ciò, c’è una grande dissolvenza, uno stacco lungo quindici anni, precisamente dal 1984 fino al 1999, l’anno in cui ritorna (sorprendentemente) alla regia, con un film che segna anche l’esordio nella piattaforma televisiva, ossia Love Letters; il quale sarà anche il suo ultimo lavoro, e concluderà definitivamente l’invidiabile avventura registica.

Dopo alcuni anni, sfortunatamente, la notizia della sua morte, avvenuta pochi giorni fa, esattamente il 21 febbraio a New York, ci ha portato a riparlare della sua figura e del suo modo di fare e intendere le arti visive.

Con Donen non scompare solo un grande autore, un grande artista, e un grande rivoluzionario dei generi classici e modernisti del cinema statunitense, ma anche un’era, un’epoca cinematografica e un tipo di film che non ritorneranno mai più, seppur vivranno sempre sullo schermo, i suoi grandi capolavori. Con Donen inoltre, se ne va l’epoca classica, quella del grande monopolio artistico, sociale e mediatico del cinema, e allo stesso tempo anche l’epoca sperimentale – avanguardistica, quella delle grandi mutazioni sulle tecniche registiche, produttive e di scrittura; tale epoca, ci ha consegnato, tra l’altro, attraverso una diretta influenza artistica, buona parte delle narrazioni cinematografiche odierne.



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